E’ durata otto mesi la carcerazione del boss dei boss, Matteo Messina Denaro, morto ieri di cancro nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila. Al di là della retorica trionfalistica sparsa a piene mani dalle fonti istituzionali sull’arresto, avvenuto appunto solo otto mesi fa a Palermo dopo circa trent’anni di latitanza, questa morte sopravvenuta dopo così poco tempo conferma l’evidenza, che cioè il mafioso aveva sostanzialmente deciso di consegnarsi, di lasciarsi prendere, avendo preso atto – con agghiacciante lucidità – di trovarsi in un fase in cui quel minimo di cure palliative che alcune patologie tumorali si limitano a consentire, al solo fine di attutire la tortura del declino, andava affrontato in una struttura ospedaliera e non era sostenibile in quel regime di occultamento agevole nel quale aveva potuto sostanzialmente condurre una vita anomala ma comoda, non priva di vacanze e compagnie amene.
Non è per disfattismo che questa evidenza va rimarcata ma per realismo. La retorica delle retate inconcludenti, la faccia feroce di istituzioni che purtroppo non riescono a contrastare davvero ed efficacemente la malavita organizzata ma fingono di farlo, diventa a volte grottesca e questo nuoce ulteriormente alla loro già precaria efficienza.
In intere aree del territorio lo Stato purtroppo non c’è, o almeno non c’è con la costanza e la credibilità che dovrebbe avere.
Ed è desolante constatare come in questa realtà fatta di abbandono e sottovalutazione dei problemi tutte le forze politiche condividano una sostanziale congiura del silenzio, cioè la scelta di non parlare nei temini appropriati di un fenmeno che spiega tante gravissime anomalie: da quelle eclatanti, come i trent’anni di latitanza sotto casa del superboss, a quelle individualmente di peso relativo ma nell’insieme velenose, come le miriadi di abusi edilizi impuniti e periodicamente (leggi alla voce Salvini, oggi) condonati, come la catena degli stupri, la piaga del lavoro nero, le morti sul lavoro da incuria e da assenza di contorlli, l’inefficacia e le lungaggini surreali delle sentenze e insomma tutta la litania di storture che descrive l’ammainabandiera diffuso dello Stato di diritto.
Il “che fare” contro una simile vergogna è puntualmente ben sintetizzato nei programmi di governo dei vari partiti ad ogni turno elettorale. Ma resta lettera morta. Ricordiamocelo, al prossimo turno.