di Giuliana Gemelli
Nel ricostruire il mito di Kronos e della nascita della vita, Martin Heidegger ha messo in luce con grande enfasi il ruolo della cura che qualifica il modo di essere, il principio vitale dell’umano esistere. L’uomo infatti riconosce e potenzia la propria esistenza avendone cura, cioè occupandosi delle cose, di sè e di chi lo circonda, al punto che si qualifica nella relazione con ciò di cui si cura che include gli aspetti materiali ma anche quelli morali, spirituali, sociali, affettivi.
Anche nel più perfetto dei mondi, la cura risulta imprescindibile soprattutto laddove la vulnerabilità dell’umano emerge ad esempio nella malattia, nella sofferenza fisica ma anche morale.
Da questo punto di vista la cura è il cuore pulsante della vita, ma paradossalmente finora non ha generato un sapere adeguato o quantomeno riflessivo, al punto che si è andata consolidando l’assimilazione tra cura e pratica medica, dimenticando che anche il termine greco “therapia” non riguarda solo il lenimento del dolore del corpo, nell’esperienza della malattia, ma anche quello dell’anima, dell’interiorità.
Al centro è l’esistenza nel suo complesso, la persona come entità individuale e inevitabilmente relazionale poiché questa relazionalità fa parte della cura della vita e per la vita in tutte le sue possibilità e potenzialità, non solo materiali ma anche cognitive, affettive, estetiche, etiche, politiche, spirituali. La cura è volta dunque a rendere perfettibile la vita, a farla fiorire nell’intreccio con gli altri e nel confronto con la sofferenza che non può essere lenita solo dall’arte medica ma richiede l’apertura alla vita in ogni suo frangente, anche quelli più estremi. Solo la cura lenisce il dolore e impedisce di esserne travolti.
Quando la cura si afferma come terapia, nel significato originario del termine che non è la semplice somministrazione di farmaci ma è rivolta alla persona nella sua interezza di mente e corpo, allora non è solo riparazione, correzione dello stato di malattia ma è cura dell’essere nella sua totalità ed unità.
Il punto è che fino a tempi molto recenti la medicina moderna sembra avere obliterato non solo il concetto ma anche la parola cura. Si parla solo di sanità nelle sue connotazioni codificate dalla pratica organizzativa e burocratica, pubblica e privata. Negli ultimi decenni sta tuttavia emergendo un paradosso connesso alla crisi del paradigma dello scientismo e dall’eccesso di tecnicismo ottocentesco e novecentesco, affermatosi a partire dalla “rivoluzione” di Abraham Flexner che indicò come imprescindibile per lo sviluppo della medicina moderna l’intreccio tra terapia e strumentazione tecnica e di laboratorio. Il paradosso, che si esprime pienamente nell’affermarsi della medicina translazionale, sia a livello della formazione medico- scientifica, sia a livello della pratica operativa ed assistenziale è che questo orientamento che è insieme clinico ed operativo mette in relazione la più sofisticata ricerca bio-tecnologica ed ingegneristica e l’osservazione accurata e di ascolto al letto del paziente, dunque l’attenzione e il prendersi cura delle persone. In questi percorsi si vanno affermando nuovi approcci in cui i valori dell’umanizzazione si pongono al centro e trovano riscontro in una metamorfosi del sapere scientifico che coinvolge la filosofia della natura e poggia sulla crisi dell’antropocentrismo, coinvolgendo diverse discipline, dalla fisica quantistica, alla medicina complementare.
Queste riflessioni portano verso percorsi che andranno approfonditi e che mettono in discussione anche le relazioni tra pubblico e privato nella gestione e nell’amministrazione della salute ed addirittura lo stesso concetto di salute dal momento che “la cura” intesa come cura della persona nel riferimento alla comunità prende il sopravvento. È il tema del benessere nella sua complessità che risulta messo in discussione e con esso tutte le problematiche desuete del welfare.