Pil Italia
GIORGIA MELONI PREMIER

In medicina si chiama “sfacelo”, ed è – secondo la Treccani – il “Disfacimento di un organismo vivente o di una sua parte”. Una definizione che si applica perfettamente alla condizione media generale della pubblica amministrazione italiana. Dove non funziona un tubo. Ricordiamocelo in premessa – allontanando da noi l’assuefazione al disservizio che ci agevola la vita quotidiana – prima di commentare il “caso Corte dei conti”.

Premesso che perfino alla Corte dei conti operano senza alcun dubbio moltissimi funzionari e magistrati di onesto sentire e grande competenza, resta il fatto che tutto quanto non funziona nella macchina pubblica del nostro Paese – dal sistema giudiziario a quello sanitario, dalle infrastrutture alle reti al Viminale – non funziona nonostante la Corte dei conti.

Chi ha un briciolo di memoria storica ricorda l’effetto-bonanza che determinava nelle redazioni dei giornali – all’epoca antica in cui esistevano giornali e redazioni non subalterne al marketing o a un partito – l’arrivo della relazione annuale della Corte dei conti: c’era da divertirsi per una settimana a tirar fuori la lista delle vergogne del Paese. Un’esercizio storiografico, però; un “divertissment noire”, come la rubrica “Spigolando qua e là” della Settimana Enigmistica. Con la lista della spesa degli sperperi insensati, delle opere pubbliche folli – mitica la galleria autostradale che, sbucando dal fianco di una collina, si trovava ad aprirsi su un cimitero, o il viadotto urbano napoletano proteso nel nulla, senza possibilità alcuna di connettersi con l’altro troncone.

Un campionario di follie, sciatterie e inefficienza mostruoso.

La cui elencazione non serviva assolutamente a niente, perché retrospettiva e perché priva di conseguenze in un sistema giudiziario da barzelletta per inefficienza e da tragedia per iniquità. Non ce ne rendiamo più nemmeno conto, ma è così. E la disgustosa congiura del silenzio di tutta la politica italiana contro questo sfacelo – al quale tutte le fazioni hanno contribuito – è proseguita fino ai giorni nostri.

Mario Draghi neopremier scelse proprio, per la prima uscita pubblica, l’assemblea della Corte dei conti, il 18 febbraio 2021, per richiamare alla necessità di trovare “un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità: una ricerca non semplice, ma necessaria. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario”.

Giustissimo. Ovviamente, però e purtroppo, innaffiò il tutto con un fiume di complimenti sull’ “indiscusso ruolo di suprema Magistratura di controllo” della Corte, pur sottolineando che “questo controllo deve essere efficiente e intransigente”, che è un po’ come dire che il rosso del semaforo dev’essere rosso e non rosatello e deve fermare il traffico e non lasciarlo passare: ovvietà, tautologie diplomatiche, per dire tutto e il suo contrario.

La domanda istituzionale resta eternamente la stessa: il sistema dei controlli italiano, dalla Corte dei conti alla magistratura ordinaria, ha migliorato in qualche misura lo sfacelo dell’inefficienza dissipatrice della pubblica amministrazione, della corruzione e dell’evasione fiscale? No, per niente. Nonostante Tangentopoli.

E allora che fa la destra cosiddetta di governo? Smonta. Smonta le regole soffocanti del vecchio codice degli appalti, rimettendo però alle stazioni appaltanti un’enorme discrezionalità, come ha giustamente stigmatizzato l’autorità anticorruzione; smonta l’arrogante e imbelle presunzione dell’accertamento fiscale analitico e individuale con la flat-tax che però, come ricordava ancora ieri il governatore Visco, contraddice il principio della progressività fiscale sancito dalla Costituzione, ma basato su un fondamento inesistente, cioè la capacità accertativa del sistema; smonta i controlli concorrenti della Corte dei conti, che non sono mai serviti a debellare corruzione e inefficienza ma rappresentano una remora in più contro le cattive intenzioni…

Insomma, come si fa si sbaglia.

Cosa replica l’opposizione al governo della destra? Intanto ricordiamoci che oggi l’opposizione di sinistra (quale sinistra?) è reduce da un trentennio in cui per 9 anni su 18 (‘94-2011) si è divisa il potere equamente con Berlusconi e sodali e per altri 11 (2012-2022) ha governato quasi sempre. Quindi è correa di tutto ciò che non va. Comunque, cosa dice? Si straccia le vesti e grida al solito assalto alle istituzioni.

Avrete capito che è tutta una pantomima.

È solo la storia che si ripete impietosamente, beffardamente. La democrazia si logora e sconfina nell’anarchia inefficiente, che oggi in Italia alligna soprattutto nel pubblico, all’ombra dell’imbelle vaniloquenza di tutte le magistrature che quando colpiscono fanno stragi ma lo fanno male, scriteriatamente e iniquamente. Questo logorio porta a istanze di segno opposto, verticistico e oligarchico, tipiche della destra di ieri e di oggi, che sulle prime danno l’idea di un recupero di efficienza e poi la smentiscono nei risultati.

Tutto questo assume una luce ancor più patetica se ci ricordiamo chi siamo e dove siamo: siamo un Paese potente nel privato – vedasi alla voce Pil – ma appunto autolesionista nel pubblico, oppresso da un debito che ci sottopone al giogo dei mercati dove senza lo scudo europeo saremmo già morti, saremmo già incapaci di collocare i nostri titoli pubblici e saremmo già crollati al suolo come la Grecia, spolpata dai sedicenti Stati fratelli dell’Unione europea. Quindi il vero giudizio finale sulle scelte del governo in materia di finanza pubblica, di Pnrr, di magistrature varie, Meloni non deve aspettarselo da Bettini o dalla Schlein, da Conte o da Landini ma unicamente dalla Commissione europea, dove peraltro prevalgono sia pur dissimulate le forze desiderose di vederci in ginocchio e spolparci, e dai mercati finanziari.

In questo senso l’unico gioco di peso che sta facendo la premier è questo votarsi in toto alla bandiera americana, potere forte in grado di bilanciare la speculazione dei partner europei contro quest’Italia da serie B che inopinatamente si ostina a recuperare sul piano dell’iniziativa privata tutti i punti che perde sul piano del decoro pubblico.

Se aspettiamo che la Corte dei conti diventi efficiente; o se ce la teniamo com’è sempre stata sperando che i soggetti sottoposti al suo controllo diventino efficienti, stiamo freschi. Non accadrà. Siamo in ritardo sul Pnrr perché non funziona un tubo. Draghi lo sapeva ma aveva dalla sua il calendario: ha scritto le sue riforme teoriche e s’è dato. Forse sarebbe stato più attivo – e con l’enorme potere di lobby che ha, la cosa poteva servirci – se l’avessimo mandato al Quirinale. Ma è andata diversamente.

P.S.: questa destra di governo in fondo più che pericolosa è maleducata. Anziché attaccare frontalmente la Corte dei conti, avrebbe potuto fare come hanno fatto dal ’45 ad oggi tutti gli altri governi, ossequiarla e fottersene.

 

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Sergio Luciano, direttore di Economy e di Investire, è nato a Napoli nel 1960. Laureato in lettere, è giornalista professionista dal 1983. Dopo esperienze in Radiocor, Avvenire e Giorno è stato redattore capo dell’economia a La Stampa e a Repubblica ed ha guidato la sezione Finanza & Mercati del Sole 24 Ore. Ha fondato e diretto inoltre il quotidiano on-line ilnuovo.it, ha diretto Telelombardia e, dal 2006 al 2009, l’edizione settimanale di Economy. E' stato direttore relazioni esterne in Fastweb ed Unipol. Insegna al master in comunicazione d’impresa dell’Università Cattolica e collabora al Sussidiario.net.