Marina Brogi, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza, già membro dell’Esma

“Diversi studi dimostrano che dov’è debole la governance è tendenzialmente più debole anche la salute economica complessiva dell’azienda, che quindi può più facilmente incappare in problematiche anche gravi”, dice Marina Brogi, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza, già membro del Securities and market stakeholder group dell’Esma (European Securities and Markets Authority).

“La governance è importante”, ribadisce Brogi, “e ogni azienda deve cercare di dotarsi del proprio abito su misura, conforme con la normativa ma adattato alle proprie esigenze da disposizioni statutarie o interne. L’importante è che si crei un sistema di pesi e contrappesi, volto a perseguire l’interesse dell’azienda e a bilanciare gli interessi di tutti gli stakeholder. Soluzioni diverse possono raggiungere lo stesso obiettivo”.

In base alle analisi Msci che si occupa di rating Esg, due grandi aziende mondiali, incorse entrambe negli ultimi mesi in traversie d’immagine molto gravi, erano state entrambe downgraded per motivi di governance

Di governance si occupa anche Assogestioni, esaminando gli investimenti Esg (Enviromental, social and governance, ndr) come tema cruciale al centro del Salone del risparmio. Ma come mai tanta attenzione? Non sarà una moda come un’altra?  

Io credo proprio di no. La sensibilità al tema dei doveri verso tutti gli stakeholder e alla necessità di un orizzonte temporale più lungo sta crescendo in tutti i mercati da alcuni anni costantemente.

L’ultima lettera annuale inviata agli amministratori delegati delle società quotate da Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, affronta proprio questo tema. La disciplina delle dichiarazioni non finanziarie di fatto richiede alle principali società quotate europee di ripensare il proprio modello di business in chiave Esg.

In base alle analisi Msci che si occupa di rating Esg, due grandi aziende mondiali, incorse entrambe negli ultimi mesi in traversie d’immagine molto gravi, erano state entrambe downgraded per motivi di governance. Ed entrambe sono incappate in un problema che ha gettato ombre sul loro sistema valoriale. 

Probabilmente si riferisce a Nissan e Boeing, ma lo diciamo noi: e dunque cos’è che in quei casi non ha funzionato?

In generale è fondamentale che l’impostazione gestionale impostata dal vertice focalizzi l’attenzione delle risorse umane non solo sull’importanza del conseguimento di un risultato ma anche sul come quel risultato viene raggiunto.

E lei rileva un’evoluzione positiva in atto in questo senso?

Una sensibilità diffusa sì, un’evoluzione positiva a tutto tondo ancora no. Del resto nessun modello è perfetto. Negli Stati Uniti, un tempo patria delle public company, della democrazia azionaria, in cui norme e best practice di governance cercavano di contenere il  potere di manager troppo forti rispetto agli azionisti, sembrano essere tornati indietro.

Da notare ancora che nel sistema americano il board è indipendente, ma di fatto il voto sulla nomina di un nuovo board viene espresso dai soci su una rosa proposta dal board uscente, per cui alcuni consiglieri possono restare in carica anche vent’anni, al punto che si parla di piani di successione anche per i membri indipendenti del board. 

Su questo scenario si staglia la novità non positiva dei giganti della tecnologia, che a dispetto delle promesse di democratizzazione, si sono sempre mossi aggressivamente per non condividere i diritti di voto, introducendo doppie categorie azionarie. In Europa gli assetti proprietari sono più concentrati e il rischio è che la maggioranza possa fruire di benefici a scapito delle minoranze. Per questo sono regolamentate le operazioni con parti correlate.

I racing Esg sono strumenti di analisi seri e interessanti, ma hanno un limite naturale: definiscono i valori esaminando dall’esterno le caratteristiche della governance e dell’azienda

Dunque è difficile generalizzare sulla qualità della governance?

I metodi sono diversi. Msci adotta un sistema articolato, che attribuisce un punteggio alle prassi di ciascuna società ed emette un rating di governance. Anche S&P sta preparando un rating Esg. E la qualità della governance in questi ranking ha un peso preponderante.

La convincono questi rating?

Sono strumenti di analisi seri e interessanti, ma hanno un limite naturale: definiscono i valori esaminando dall’esterno le caratteristiche della governance e dell’azienda. Nonostante questo limite intrinseco si sono rivelati efficaci nel prevedere i problemi e, comunque sia, si vigila sull’esistenza di precondizioni idonee a consentire una buona governance.

Ma dica la verità: tanta enfasi sulla buona governance non si traduce in oneri procedurali, lentezze e inefficienze?

Al contrario la governance aiuta ad avere una disciplina societaria forte. Idealmente dovrebbe favorire la crescita e la sicurezza dello sviluppo. Vede, normalmente le aziende nascono da qualcuno che ha un’idea di business…ma che deve poi farsi affiancare perché ha sempre più bisogno di altre funzioni gestionali vicino alle proprie. La buona governance aiuta a passare dalla formula one-man-show al management team.

Ma il management team ha bisogno di avere una sua accountability, cioè una chiara responsabilizzazione: perché se allontaniamo la disciplina e la responsabilità da chi decide, indeboliamo il valore delle decisioni stesse. La governance deve avere l’obiettivo di creare un processo disciplinato e chiaro per le decisioni strategiche che sono di competenza del board e un meccanismo di accountability più forte, in modo da intercettare per tempo se i risultati non sono quelli attesi.

Eventuali aggiustamenti sono più efficaci se presi tempestivamente. Tuttavia un processo disciplinato non basta in quanto le decisioni strategiche si basano su ipotesi sul futuro e qualunque decisione strategica può essere sbagliata se basata su una visione del futuro errata. 

Che ne pensa della legge 231?

È una normativa molto articolata, volta a cercare di prevenire comportamenti sbagliati, ed è una disciplina complementare rispetto ad altre. Di fatto richiede che le società si dotino di un proprio codice etico.

Ma secondo lei un codice etico ha senso?

Secondo me si, consente di dichiarare i valori che l’azienda persegue e rappresenta un tassello nel sistema di corporate governance. 

La decisione del legislatore europeo di lasciare libertà agli emittenti nel declinare i contenuti delle dichiarazioni non finanziarie mi pare molto positiva. Ma più che un collegio sindacale e un comitato controllo e rischi, forse sarebbe più utile un comitato dedicato alla sostenibilità

Una parte delle norme sulla governance ormai vengono dall’Europa, qual è il suo giudizio su questo?

Su alcune molto positivo. La decisione del legislatore europeo di lasciare libertà agli emittenti nel declinare i contenuti delle dichiarazioni non finanziarie in base alla maggiore materialità mi pare molto positiva in quanto davvero orienta le aziende a ripensare il proprio modello di business in chiave Esg. Invece specificamente in materia di governance c’è una tendenza alla stratificazione che non accenna a essere risolta.

Nelle quotate il collegio sindacale e il comitato di controllo e rischi svolgono attività simili e a volte sovrapposte. Guardando avanti, per tornare ai temi Esg, più che collegio sindacale e comitato controllo e rischi, forse sarebbe più utile un comitato dedicato alla sostenibilità. Bisognerebbe riconsiderare periodicamente i vari comitati alla luce delle esigenze nuove. Il sistema monistico potrebbe avere un suo spazio perché è un modello più semplice, ma il tema resta aperto.

Che ne pensa delle nuove regole sul market abuse?

La disciplina si è considerevolmente complicata, non sono così convinta che alcune novità come market soundings e  meccanismo del ritardo porteranno a una situazione di miglioramento complessivo. Mi sembra un appesantimento gravoso delle procedure, della cui utilità soprattutto in termini di costi benefici non sono sicura.

E la sfida più grande per l’Europa?

Riuscire a trovare un equilibrio sostenibile basato su politiche maggiormente condivise e a tendere meno distorsive. La fiscal policy in teoria sarebbe lasciata ai singoli Stati, ma in pratica viene influenzata da regole e interventi contro gli aiuti di Stato.  La recente sentenza della corte di giustizia europea sul caso Tercas è un caso su cui riflettere.

Al contempo ci sono Stati della UE che fanno concorrenza anche usando le aliquote fiscali. La sensazione è che le istituzioni europee a volte si perdano nei dettagli rinunciando a concentrarsi e a gestire i temi di fondo del bene comune.

Come uscirne?

Occorre molto impegno, anche perché servirebbe un soluzione condivisa a livello internazionale. In generale nel mondo c’è una crisi acuta sulla fiscal policy. Ci sono fortissime contraddizioni sulla tassazione. Le aziende che riescono a pagare meno tasse più facilmente diventano leader di mercato in quanto riescono a investire di più, a essere più efficienti e a crescere di più. Questo è un tema legislativo che richiede consapevolezza, competenza e lungimiranza.

(*intervista pubblicata sul numero di aprile)