di Andrea Granelli
Recita La Repubblica del 9 giugno 2023: “Indietro non si torna. Secondo un sondaggio presentato oggi pomeriggio a RepIdee, infatti, il 62% degli italiani pensa che rinunciare agli algoritmi ‘significherebbe perdere molte conquiste importanti’: dal valore aggiunto in ambito medico-scientifico, riconosciuto da oltre l’80% degli intervistati, al ruolo positivo giocato nell’industria e nella logistica. Un ruolo che però non è riconosciuto da tutti: soprattutto tra operai e ceti fragili, in molti auspicherebbero un ritorno al passato”.
Ecco come un tema così delicato come il (possibile e/o desiderabile) controllo dell’evoluzione tecnologica del software – e in particolare dell’intelligenza artificiale – viene trasforma in tifo da stadio, in confronto fra tecnofobici e tecnofan.
La ricerca ossessiva dell’attenzione di lettori sempre più distratti e superficiali spinge i media ad aumentare la polarizzazione delle questioni, forzandone necessariamente una snaturante semplificazione.
Come si fa ad essere contrari agli algoritmi? La domanda non ha senso ed è ingannevole. La vera questione è: è possibile discernere tra algoritmi buoni ed algoritmi cattivi?
Proviamo a fare un po’ chiarezza, anche se il tema richiederebbe più spazio: un algoritmo buono è un algoritmo che fa “sostanzialmente” quello per cui è stato progettato. Le leggi dell’informatica (originate dai due teoremi di incompletezza, pietre miliari della logica moderna ed enunciati dal grande matematico Kurt Gödel nel 1931) ci ricordano che è impossibile dimostrare che un algoritmo è esatto e cioè che si comporta sempre – in tutte le casistiche possibili – secondo le volontà esplicitate da chi ha elaborato il programma; e questo a prescindere dalle sue capacità. Gli esperti conoscono la sua versione formale come Teorema di Turing. Illuminante per la nostra riflessione è però il concetto di problemi indecidibile: un problema è detto indecidibile (irrisolvibile) se è possibile dimostrare che non esistono algoritmi che lo risolvono. Ora una scoperta recente dell’ingegneria del software è che – dati due programmi – il problema di stabilire se essi calcolano la stessa funzione è indecidibile.
Dove voglio arrivare? Il vero tema non è essere contro gli algoritmi ma accorgersi quando anche gli algoritmi “buoni” funzionano male. Pensiero critico applicato al digitale, lo chiamerebbero alcuni. Io propendo per sano scetticismo applicato anche alle magnifiche sorti e progressive del software e dei suoi sempre più potenti algoritmi.
Se poi vogliamo spingerci dentro il mondo dell’intelligenza artificiale, il tema si fa più sottile. Gli algoritmi che animano i motori inferenziali, cuore di queste tecnologie, sono relativamente semplici; sono però i dati a orientarne le decisioni, a generarne il valore. E quindi la questione si trasforma in: siamo in grado di discernere tra dati buoni e dati cattivi? Non solo: se i dati buoni vengono raccolti – talvolta catturati – con tecniche “cattive” va bene lo stesso? Probabilmente Macchiavelli accetterebbe il fatto che la raccolta dei dati buoni – magari a fin di bene (per lo meno nella prima modalità di utilizzo) – venisse fatta anche in modo illegale. Ma noi?
Il tema non è dunque arrestare il progresso ma non è neanche fare gli struzzi e mettere la testa sotto terra per non vedere. Dobbiamo esercitare con maggiore frequenza il principio di precauzione enunciato dal filosofo Hans Jonas; ma per fare questo dobbiamo aumentare le nostre competenze tecniche per essere capaci di farci un punto di vista personale sulle scelte tecniche e non fidarci semplicisticamente di ciò che ci dicono i fornitori, soprattutto quelli di successo. Dovremmo seguire il prezioso suggerimento di Giuseppe Prezzolini, che in una lettera pubblicata su La Rivoluzione liberale del 28 settembre 1922, affermò: «Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di “coloro che non la bevono”, tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque».