Nel mondo globale non bisogna sottovalutare nessun segnale. Anche se non arriva direttamente dalla politica o dall’economia ma dalla cultura, dal cinema, dai media, dalla demografia. Per esempio, chi l’avrebbe detto che il Golden Globe vinto l’anno scorso a Hollywood dal film indiano RRR, ambientato nell’India coloniale degli anni ’20, avrebbe dato un bel contributo al nazionalismo indiano al punto da far dire all’attuale leader indù Narendra Modi, un ultraconservatore lontanissimo dalle tradizioni di non-violenza del gandhismo, che quella commedia musicale poteva essere considerata una sorta di manifesto dell’orgoglio indiano?
E chi l’avrebbe detto che, dopo quel film e dopo l’arrivo di un indiano (Rishi Sunak) alla guida del governo inglese (come a dire, un ex colonizzato dell’Impero a Downing Street), tutto il sistema dei media occidentali avrebbe cominciato a scrivere, con il supporto dei paper del Fmi e della demografia, che “era arrivata l’ora dell’India”?
Nel nostro piccolo (italiano) il Corriere della Sera (il 1° febbraio) ha spedito la sua migliore firma, Aldo Cazzullo, al seguito di Rahul Gandhi che, sull’esempio del Mahatma, ha attraversato a piedi tutto il subcontinente dall’Oceano alle montagne del Kashmir: l’anno prossimo si vota e Rahul Gandhi, il nipote di Indira (uccisa dalle sue guardie del corpo sikh), il figlio di Rajiv (ucciso dalle Tigri Tamil durante una feroce guerra civile), ha tutta l’intenzione di sconfiggere i nazionalisti indu, battere Modi – che in questo momento si barcamena tra Washington e Mosca – e, come ha dichiarato a Cazzullo del Corriere, “salvare la democrazia indiana”.
Eccoci arrivati al punto. Perché se è vero che “è arrivata l’ora dell’India”, la domanda da farsi ora è se davvero Nuova Delhi è nelle condizioni di esprimere e di esercitare una concreta leadership in questa parte del mondo che un attento conoscitore della storia della geografia dell’economia e della politica come un altro giornalista del Corriere, Federico Rampini, ha ribattezzato con il nome di Cindia (Cina + India).
È il momento di osservare quel che si muove dietro “l’orgoglio indiano”. Partiamo dalla demografia e dall’economia. Entro la fine di quest’anno l’India dovrebbe superare la Cina arrivando a 1,4miliardi di abitanti (mentre Pechino dovrebbe crollare a 850milioni entro la fine del secolo, secondo le proiezioni più pessimiste). Non meno eclatanti i risultati economici: sempre entro il 2023 la crescita del Pil indiano dovrebbe arrivare al 7%, superiore a quella del vicino cinese (che annuncia un +10% a cui, però, non crede nessuno). Non solo. La crescita indiana ha anche un “valore politico” positivo agli occhi degli Usa e dell’Occidente come dimostra l’impegno sempre maggiore del governo (oggi il partito nazionalista di Modi, domani il Partito del Congresso di Rahul Gandhi: non cambia niente) nell’ambito del Quad (Quadrilater Security Dialogue), un’alleanza politico-militare tra Usa, Giappone, Australia e India, costituita nel 2017 per contrastare l’egemonia di Pechino (“Un baluardo contro la Cina” l’ha definita il South China Morning Post mentre il ministro degli esteri di Pechino, Wan Yi, si è detto subito preoccupato per “questa specie di Nato del sud-est asiatico che riporta all’indietro l’orologio della storia”).
Certo, il governo del nazionalista Modi non ha preso posizione sulla guerra in Ucraina, anzi dichiara apertamente la sua vicinanza al regime di Putin, ma a Washington sono ragionevoli: come potrebbe l’India crescere (a scapito della Cina, vera grande nemica) senza le risorse energetiche, senza il gas e il petrolio della Russia? Crescita sostenuta, va detto, anche dalle ultime recenti riforme come l’istituzione di un’unica tassa nazionale sui consumi (una sorta di Iva) al posto di una miriade di tasse locali di difficile imputazione nella contabilità nazionale, e come l’introduzione di una carta d’identità digitale nazionale per tutti gli indiani.
Eppure, l’affermazione dell’”orgoglio indiano” non può non fare i conti con le mille contraddizioni del Paese. E anche qui facciamo parlare i dati: un quarto della popolazione indiana ha meno di quattordici anni, ma il tasso di denutrizione è tra i più alti al mondo e l’indice globale della fame (Global hunger index) colloca il Paese al 107° posto (su 121). Ancora: l’India dispone di grandi ricchezze e di grandi gruppi finanziari e industriali (Tata automobili, Mittal acciaio, etc.), ma la trasparenza del mercato è tutta da costruire, come dimostra il recente crack della conglomerata Adani (cemento e tanto altro) che nella prima settimana di febbraio ha bruciato 100 miliardi di dollari in Borsa (su 218 di capitalizzazione) dopo la denuncia del fondo attivista Hindenburg Research contro il suo fondatore, Gautam Adani, vicinissimo al leader Modi, accusato di frode.
“Il caso Adani” ha scritto il Times of India “è un test cruciale per l’economia di mercato del §Paese”. Così come è un test cruciale, come ha dichiarato il presidente del Global Development Network di Nuova Delhi, il francese Pierre Jacquet, la relazione con i 200milioni di mussulmani, cittadini indiani come la maggioranza indù, ma ancora discriminati a 70 anni dalla dichiarazione d’indipendenza. L’orgoglio dell’India ha ancora molta strada da fare prima di prendere posto nelle prime file del mondo globale.