Se alle parole “class action” vi viene in mente Julia Roberts nei panni di Erin Brockovich, che intentò una causa contro la Pacific Gas & Electric per la contaminazione con cromo esavalente delle acque di Hinkley, e il tutto vi sembra molto, molto lontano, potreste dovervi ricredere molto presto. Perché, a prescindere dal fatto che la vostra impresa sia grande, media, piccola o nanoscopica, financo unipersonale (ovvero se siete un professionista), dal 19 aprile 2020 (e non manca molto) nel mirino potreste finirci voi. E il sogno (Julia Roberts) potrebbe trasformarsi in un incubo. Quel giorno, infatti, entrerà in vigore la riforma della Class Action all’italiana.
Fornitori, distributori, franchisee potranno coalizzarsi contro le grandi imprese. In europa solo il Belgio prevede questa possibilità
Non fatevi fuorviare dalla terminologia: “azione di classe” non indica un gesto raffinato, ma definisce le previsioni dell’articolo 840 bis del Codice di procedura civile e seguenti, ovvero la possibilità di tutelare diritti individuali omogenei attraverso un procedimento collettivo. Perché l’unione fa la forza… da esercitare contro le imprese. Nulla da eccepire sul principio, per carità. Il problema, casomai, è come è stata riformata la materia (dalla legge 31 del 12 aprile 2019 che entrerà in vigore, appunto, il 19 aprile prossimo). E gli avvocati d’impresa sono in allarme: «Abbiamo esaminato il testo che entrerà in vigore ad aprile e sono emerse più ombre che luci», spiega Sara Biglieri, Head of Europe litigation group nonché partner (nell’ufficio di Milano) di Dentons, il più grande studio legale al mondo per numero di avvocati e il sesto per fatturato. «Questa legge pone seri rischi per le imprese e sostanzialmente non pone nessuna disposizione a loro effettiva tutela. Nemmeno per metterle al riparo da azioni strumentali da parte di aziende concorrenti». In altre parole: a fare causa potranno anche non essere necessariamente le associazioni dei consumatori, ma qualunque soggetto: dal singolo individuo ai competitor. E a venire citata in giudizio potrà essere “qualunque impresa”. Incluse le reti di franchising o le Pmi, che si potranno coalizzare contro i colossi.
Tante ombre, poche luci
I nodi, nel pettine, sono diversi: «Da un lato ci troviamo nell’impossibilità per l’impresa citata in giudizio di individuare per molti mesi, fino a un anno e mezzo, il fattore di rischio della causa, perché non è possibile sapere quali e quante saranno effettivamente le controparti», commenta Sara Biglieri. «L’altro aspetto inquietante è la pubblicità, senza nessuna garanzia di confidenzialità, considerando che come primissimo atto c’è la pubblicazione online del ricorso introduttivo del giudizio, ma la causa potrebbe poi rivelarsi completamente infondata. Il terzo elemento negativo è la facilità di strumentalizzazione di questa tipologia di azione, che potenzialmente potrebbe essere “replicata” infinite volte attraverso azioni individuali di singoli».
Questa legge pone seri rischi per le imprese
e nessuna disposizione a loro effettiva tutela
Non solo: «Uno degli aspetti più preoccupanti», aggiunge, «è l’ampliamento della sfera d’azione. La nuova legge si applicherà anche a qualsiasi condotta per presunto danno extracontrattuale: ad esempio, quindi, tutte le tematiche ambientali potranno ricadere nella nuova class action». E a coalizzarsi, come anticipato, potranno anche essere fornitori, reti di franchising, distributori. Un’anomalia tutta italiana, o quasi: «Solo il Belgio, oltre all’Italia, estende il rimedio della class action anche alle imprese». Per non parlare (ma parliamone) delle tempistiche: «Le imprese potranno trovarsi nelle condizioni di avere solo 120 giorni per depositare una memoria nella quale prendere posizione su ogni singolo aderente. Immaginiamo un’azienda con 100mila clienti. E ogni fatto che non viene contestato dall’impresa si dà per provato. Si rischia di perdere una causa solo perché non si è riusciti a contestare ogni singolo elemento». Un altro nodo? La pubblicità: verranno pubblicate persino le transazioni, anche se, sottolinea Biglieri, «la ragione per cui si transa è proprio la riservatezza». Paradossalmente, il problema potrebbe anche non porsi affatto: «L’assenza di possibili previsioni del rischio che la causa comporta, stante la possibilità per un numero indeterminabile di soggetti di aderire a più riprese, scoraggerà qualunque transazione». Così, anche soggetti molto regolati, come le grandi banche o i gestori di servizi telefonici, qualche problema se lo pongono: «Noi abbiamo un atteggiamento proattivo nella gestione del contenzioso e, quando possibile, cerchiamo di chiudere le vertenze con soluzioni conciliative, per mantenere un buon rapporto con il cliente e contenere l’impatto economico», commenta Antonio D’Agostino, Head of civil litigation department di Intesa Sanpaolo. «La nuova normativa sulla class action sembra non favorire queste soluzioni conciliative in tempi brevi, né una tempestiva valutazione del rischio complessivo dell’azione, anche ai fini degli accantonamenti. È difficile comunque dire se la nuova normativa potrà incentivare le class action nei confronti delle banche, considerato anche che le loro attività sono regolate e controllate da diverse Autorità e che esistono efficienti strumenti ad hoc come l’Arbitro bancario finanziario».
Difendersi, ma fino a un certo punto
Ma andiamo con ordine. Chi si troverà dalla parte sbagliata del campo da gioco, tecnicamente il “resistente”, si troverà a doversi difendere con armi spuntate. «La riforma comprime fortemente i diritti della difesa», commenta Roberto Lipari, partner nell’ufficio Dentons di Roma. «L’aderente – ovvero l’attore in senso sostanziale che nel corso del giudizio può, per l’appunto, aderire all’azione promossa dal ricorrente, ndr – può aderire in momenti diversi all’azione di classe e addirittura revocare l’adesione, mentre il resistente può solo subire». Peraltro, entro 60 giorni dal deposito della domanda introduttiva dell’azione di classe presso la cancelleria del Tribunale delle imprese (la cui preparazione dovrebbe comunque tranquillizzare un po’ di più il resistente), altri ricorrenti potranno proporre ulteriori azioni di classe fondate sui medesimi fatti, che saranno riunite alla prima. L’importante, quindi, è andare ogni tanto a spulciare sull’apposita sezione del sito internet del tribunale che pubblicherà il ricorso introduttivo del giudizio e una serie di atti e provvedimenti successivi del medesimo giudizio. Sì, avete letto bene: pubblicherà. «Le imprese si troveranno a dover fronteggiare un danno reputazionale, perché le domande saranno pubblicate a prescindere dalla loro fondatezza». E la pubblicazione si traduce in un effetto moltiplicatore del rischio». Un pericolo che sta già allarmando imprese come Atm, il gestore del trasporto pubblico locale a Milano: «La soddisfazione dei clienti è per noi un parametro più importante della stessa redditività», commenta Micaela Vescia, responsabile Affari legali e societari della municipalizzata. «Fornendo un servizio pubblico ad un numero non determinato né determinabile di soggetti, siamo sempre esposti in primo luogo al giudizio degli clienti».
Tre fasi, altrettante bucce di banana
Una volta che l’azione è dichiarata ammissibile (prima fase), si apre la seconda fase: quella del merito sull’an (come dicono gli avvocati), che poi sarebbe l’an debeaur, cioè il “se” sia dovuto un risarcimento per il danno. Altro giro, altro regalo: il tribunale fissa un termine compreso tra i 60 e i 150 giorni per l’esercizio della prima facoltà di adesione, la cosiddetta “adesione preventiva”. Significa che chiunque si riconosca, in tutto o in parte, nella situazione oggetto della causa, può accomodarsi alla tavola. L’adesione dà accesso al fascicolo telematico, cioè anche agli atti difensivi del resistente, e l’unico atto che il resistente potrà depositare per difendersi sarà la memoria depositata nella prima fase, che andrà scritta avendo in mente anche i possibili soggetti che potranno aderire alla class action nella seconda fase. Occorrerebbe una sfera di cristallo. Se l’impresa non conosce esattamente le sue controparti, si trova di fronte a una difficoltà difensiva importante. Non solo: una volta depositati e resi accessibili al pubblico gli atti di difesa, il resistente, cioè l’impresa, sarà inevitabilmente “inchiodato” alla linea difensiva scelta.
Viene eliminata la confidenzialità: il ricorso viene pubblicato subito online anche quando la causa può ancora rivelarsi infondata
Poi ci sono i bonus (si fa per dire): il compenso del Ctu, ovvero il Consulente tecnico d’ufficio che aiuta il giudice a valutare le prove fornite dalle parti (e che ha specifiche competenze tecniche che il giudice non possiede), in via di principio sarà a carico del resistente (il convenuto in giudizio), mentre nei procedimenti ordinari la spesa normalmente viene divisa fra le parti. E il giudice ha il potere, su istanza motivata del ricorrente, di ordinare all’impresa l’esibizione di prove. In sostanza: chi fa causa chiede di poter “guardare in casa altrui”, chi è chiamato in causa deve aprire i “cassetti di casa propria”. E se si rifiuta di farlo? Rischia di incorrere in una sanzione pecuniaria amministrativa e dovrà sborsare da 10mila a 100mila euro. «Una delle anomalie della riforma, tra l’altro, è che l’aderente può produrre una particolare forma di testimonianza scritta che al resistente non è consentita», spiega Roberto Lipari. La ciliegina sulla torta? «Il giudice potrà anche decidere sulla base di dati statistici e presunzioni semplici».
Non è mai troppo tardi
Se la sentenza accoglie il merito della domanda, si passa alla terza fase: quella dell’assalto alla diligenza. Perché con l’avvio del giudizio di merito sul quantum debeatur (cioè su quanto l’impresa dovrà sborsare) il tribunale fissa un termine fra i 60 e i 150 giorni per l’esercizio della seconda facoltà di adesione da parte dei titolari dei diritti individuali omogenei. È la cosiddetta “adesione successiva”, il “non è mai troppo tardi” applicato alla class action. In offerta speciale: «L’aderente può beneficiare della causa senza sopportarne i rischi, visto che non può mai essere condannato alle spese di lite e può revocare la propria adesione anche se la terza fase si conclude con il rigetto dell’adesione», spiega Luca De Benedetto, Managing counsel nell’ufficio Dentons di Milano. E la condanna del resistente non è solo «al pagamento di somme o alla consegna di cose, ma anche delle spese di lite dell’aderente, del compenso del rappresentante comune degli aderenti, nominato dal tribunale, una sorta di curatore fallimentare, e persino di un compenso premiale direttamente al difensore del ricorrente». Avete letto bene: l’avvocato che intenta la causa avrà un premio. E, considerato il fatto che l’Italia è il paese degli avvocati (ne abbiamo il quadruplo rispetto alla Francia e il doppio della Germania) e che non tutti sono così fortunati da essere partner di importanti studi legali, scommettiamo che ci sarà un boom delle azioni “di classe”?