Il valore della diversitàsi misura nel fatturato

Parlare di un tema è una cosa, diffondere cultura è un’altra. Francesca Vecchioni, consulente e formatrice in tematiche legate alla d&i, fa la seconda da quando otto anni fa ha creato Diversity, di cui è Presidente e della quale ha dato una definizione semplice e suggestiva: «Diversity crea caramelle, partendo dalla ricerca accademica, da ciò che può essere importante divulgare sulle tematiche dell’inclusione, per arrivare a creare dei progetti che hanno l’obiettivo di ingolosire le persone di alcune informazioni che sono molto importanti». La sua associazione ha l’obiettivo di generare cambiamenti positivi e sovente ciò avviene, secondo il giornalista e sociologo canadese Malcolm Gladwell, proprio come si diffondono le epidemie: «Per comprendere il potere delle epidemie dobbiamo accettare che, a volte, i grandi cambiamenti derivino da piccoli eventi e che spesso queste trasformazioni possano verificarsi con grande rapidità». Occorre quindi possedere una salda convinzione che le persone possano cambiare comportamenti o convinzioni se esposte allo stimolo adatto. Francesca Vecchioni e il suo team fanno proprio questo, attraverso la produzione di eventi come il Diversity Media Awards (analisi e poi premi a media e personaggi che hanno contribuito a una rappresentazione valorizzante delle persone e delle tematiche di genere e identità di genere, orientamento sessuale e affettivo, età e aging, etnia e disabilità) e il Diversity Brand Summit (l’evento dedicato alle aziende e all’impatto che diversità e inclusione hanno sul business).

Diffondere cultura però significa anche parlare di dati oggettivi. Per questo quanto emerge dal Diversity Brand Index (un progetto di ricerca condotto da Diversity in collaborazione con Focus Management) ha un valore inestimabile. Perché non è solo etico sviluppare una cultura orientata alla diversità e all’inclusione, ma è pure redditizio. La mappatura delle aziende ha riguardato le loro iniziative di Diversity&Inclusion rivolte al mercato italiano, classificandole per le sette forme di diversità riconosciute in letteratura in maniera trasversale: credo/religione, disabilità, età, etnia, genere, orientamento sessuale e status socioeconomico. Qualche numero? I brand che investono in D&I registrano una crescita dei ricavi del +20% rispetto a brand non inclusivi (+16,7% nel 2018), proprio perché il 51% dei consumatori sceglie con convinzione brand inclusivi e un ulteriore 23% preferisce brand che investono sulla Diversity&Inclusion. Oggi più che mai, l’impegno nella D&I ha non solo un forte impatto sulla reputazione delle aziende, ma è tra i fattori determinanti in grado di generare fiducia nei brand e alimentare di conseguenza brand equity e passaparola positivo, indirizzando le scelte d’acquisto di consumatrici e consumatori. Inoltre il Net Promoter Score (indicatore del passaparola) per i marchi percepiti come più inclusivi quest’anno ha raggiunto quota 85,1% (+14 p.p.) rispetto al 70,8% dello scorso anno, con un potenziale in termini di delta nella crescita dei ricavi del +20% rispetto al 16,7% del 2018, a dimostrazione della stretta correlazione tra D&I, passaparola positivo e crescita economica/ricavi dei brand. Insomma, «l’inclusione non è un più considerato come un tabù ma è un vero e proprio asset di crescita strategico per le aziende», spiega Francesca Vecchioni.

Quando ha deciso di impegnarsi in prima persona sul tema diversity e inclusion? 

Quando ho fondato una no-profit con l’obiettivo di diffondere la cultura dell’inclusione. In realtà non esisteva un soggetto che riuscisse a ragionare con uno scopo sociale, ma attraverso delle leve di business e quindi attraverso una concezione intersezionale. Quindi non solo prendendo ad esempio il tema dell’orientamento sessuale, , dell’identità di genere oppure della disabilità, ma lavorando su tutte le aree della diversity.

Con un approccio molto scientifico.

È una delle nostre caratteristiche quella di lavorare proprio partendo da una base solida, con una stretta collaborazione con il mondo della ricerca e il mondo accademico. Siamo molto data-driven. Al tempo stesso vogliamo essere un connettore, capace di creare progetti che diffondano l’inclusione. Una leva determinante è quella della comunicazione dell’immaginario collettivo, il fatto quindi di riuscire a incidere sulle persone e sui soggetti che realmente fanno da volano al tema culturale.

Ovvero i Diversity Media Awards.

Siamo arrivati alla quinta edizione. Quando siamo partiti l’Osservatorio di Pavia è andato indietro di 15 anni per analizzare il mondo della diversità rappresentato dai media per avere un trend un po’ più lungo. Questo lavoro sui media è un primo aspetto, cioè analizzare chi ha la responsabilità di rappresentare la realtà in maniera più intuitiva possibile ma soprattutto più autentica. Le economie più avanzate sono quelle in cui diritti civili e diritti umani non sono violati e in cui l’equità sociale e quindi l’inclusione hanno livelli alti. Sono dati reali che si ripercuotono direttamente sul sistema economico di tutta una società. Il passo successivo è come le aziende percepiscono il valore della diversity: dalla capacità di trovare e intercettare i propri talenti a quella di dare spazio alle potenzialità delle persone che operano all’interno dell’azienda stessa. Investendo sulle diversità si crea un ambiente sostenibile e anche molto performante.

La ricerca che presentate nel corso del Diversity Brand Summit dimostra la stretta correlazione tra investimenti su diversity&inclusion e crescita nei ricavi.

Oggi più che mai il consumatore sceglie sulla base dei valori che l’azienda rappresenta, valutando le azioni che compie e le modalità con cui le compie. Il Diversity Brand Index non parte da quello che fanno le aziende al loro interno ma da come vengono percepite. E le aziende percepite come inclusive, cioè quelle più attente alla diversità in senso ampio (orientamento sessuale, religione, etnia, età, genere, disabilità e status socioeconomico) sono più apprezzate dai consumatori, attirano più talenti e migliorano le proprie performance economiche.

Senza entrare direttamente nel merito di questioni politiche, l’Italia non appare il Paese più inclusivo: le nostre aziende invece?

Diciamo che non siamo ancora molto avanti su questo tema. Se ne parla come se fosse una casellina da flaggare o poco più. All’interno delle nostre aziende continuano ad esserci una serie di pregiudizi rispetto ad alcune tematiche. I pregiudizi di genere ad esempio non sono per forza attivati solo dagli uomini, ma anche dalle donne verso le donne stesse.  Oppure l’orientamento sessuale, ma possiamo parlare delle tematiche della disabilità. Chiediamoci quante persone disabili sono nelle aziende e quante ce ne sono nei board, o quante donne ci sono nei board. Noi ci impegniamo a far comprendere il valore delle differenze e di come la diversità non sia altro che una grandissima opportunità. È certamente più faticoso avere a che fare con qualcuno che è molto differente da noi, ma quella fatica produce molto più vantaggio. Ci vuole coraggio però, ma chi non è coraggioso questo treno se lo perde.

Le grandi realtà hanno probabilmente compreso questa opportunità, ma le Pmi?

Lo stanno capendo o quantomeno negli ultimi due anni c’è un interesse ancora più forte. È scattata una specie di corsa all’attenzione su questo tema. Molti si stanno arrangiando per cercare di capirci qualcosa, ma è un’attività che richiede impegno e competenze. Io ho coniato il termine diversity transformation, per cui proprio come accade per la digital trasformation non è sufficiente inserire una persona per cambiare tutta un’organizzazione e positivizzare in questo senso.