La pandemia e, più recentemente, il conflitto tra Russia ed Ucraina hanno posto sfide senza precedenti alle catene globali del valore, accentuando la tendenza al rallentamento dell’integrazione economica a livello globale che si evidenzia a seguito della crisi finanziaria del 2008. Gli shock che ne conseguono sul lato della domanda (dovuti al Covid) e dell’offerta (dovuti al conflitto) hanno creato diversi rallentamenti lungo la catena di approvvigionamento, che vanno dalle interruzioni logistiche alla carenza di attrezzature e manodopera, nonché di beni intermedi e hanno maggiormente evidenziato la fragilità dell’attuale configurazione delle catene globali del valore imponendo alle imprese un ripensamento della propria supply chain e delle proprie decisioni di localizzazione. Questi cambiamenti hanno ulteriormente evidenziato il mismatching sul lato risorse umane, che sono diventate il bene più prezioso e che impone ulteriori riflessioni.
Negli ultimi mesi si è tornati a mettere in discussione l’attuale modello di globalizzazione economica, che negli ultimi 20 anni ha determinato un certo equilibrio ed ordine mondiale. Non a caso nel World Economic Forum di Davos, al Forum sull’Economia di Trento e in molti osservatori il tema più dibattuto è quale può essere il futuro della globalizzazione, tra deglobalizzazione, regionalizzazione, re-shoring, near shoring. La via più comune ed accreditata è quella di considerare che la globalizzazione in ogni caso è cambiata ma non è finita.
«Stiamo correndo il rischio di non essere preparati a questo grande cambiamento» dice Roberto Corciulo, partner e presidente di IC&Partners, società di consulenza per l’internazionalizzazione che accompagna le imprese italiane sui mercati esteri, «dopo la pandemia siamo alle prese con l’accelerazione dovuta al conflitto russo ucraino: il processo di creazione di macro blocchi commerciali in corso fin dal 2008 ne esce rafforzato. Io sono tra coloro che sostengono che la globalizzazione non sia finita, ma stia cambiando pelle in modo piuttosto importante. Questo provocherà problemi industriali importanti in Europa». Gli elementi critici sono numerosi. «Da un lato il costo dell’energia e delle materie prime sta subendo incrementi tali da metterci fuori mercato» sottolinea Corciulo, «dall’altro la Russia sta vendendo petrolio alla Cina al 40% in meno: è diventata il primo fornitore di Pechino superando l’Arabia Saudita. Questo comporta una perdita di competitività delle nostre imprese, alle prese con concorrenti che hanno un costo dell’approvvigionamento energetico molto più basso».
A rischiare è prima di tutto l’Italia. «Il problema riguarda anche le imprese tedesche, ma la Germania non ha il nostro debito pubblico: il bilancio dello Stato italiano rischia di essere messo in forte pressione» mette in evidenza il presidente di IC&Partners. «A questo si deve aggiungere lo shortage di materie prime quali per esempio le bramme di acciaio che arrivavano da Mariupol: non dimentichiamo che il 40% del nostro export si compone di macchinari e beni d’investimento. Poi c’è il tema della transizione energetica: è tecnicamente impossibile sostituire in pochi mesi il gas e il petrolio che acquistiamo dalla Russia. Ancora, dal punto di vista macro-politico l’esito delle elezioni politiche in Francia è un segnale verso un percorso populista che non aiuta l’Europa a fare i conti con se stessa; e anche in Italia siamo già in fase elettorale, il che impedisce di prendere le decisioni dovute. Le imprese sono di fronte alla necessità di ristrutturarsi per far fronte al cambio di paradigma globale, ma il quadro generale non permette loro di fare la necessaria programmazione».
A complicare ulteriormente lo scenario ci sono le sanzioni internazionali, non sono solo nei confronti della Russia: il quadro è in continua evoluzione e costringe gli operatori economici a navigare a vista. «Sono circa 35 i Paesi soggetti a programmi sanzionatori, Paesi anche importanti: Russia, Iran, Afghanistan, Sudan del Sud, ma anche Serbia, Tunisia, Congo, Myanmar» dice Zeno Poggi, managing partner di Zpc, società che aiuta le imprese a rispettare le normative del commercio estero e prevenire il rischio sanzioni. «Le aziende che si trovano a operare in questi Paesi devono assolutamente fare i conti con i programmi sanzionatori; è facile quando la sanzione viene approvata in un sistema di contesto globale, cioè l’Onu, come quelle applicate per la repressione del terrorismo. Ma purtroppo l’esperienza dell’Iran ha dimostrato che possiamo trovarci con un disallineamento tra il programma sanzionatorio americano, quello europeo, della Svizzera, del Regno Unito, ora della Russia».
Ecco che il quadro sanzionatorio globale diventa un puzzle di difficile soluzione. «Oggi ci troviamo 78mila soggetti tra persone fisiche e società che sono nelle varie black list americane, europee, svizzere, Onu» mette in evidenza Poggi. «In particolare, mentre l’effetto delle sanzioni europee è verticale, con elenchi di soggetti ben definiti con nome e data di nascita, o società identificate con il numero di registrazione, o beni specifici identificati con codici doganali, quelle degli Stati Uniti intervengono in senso orizzontale. Per esempio, è vietato contribuire allo sviluppo economico e tecnologico dell’oil&gas in Venezuela, e un’azienda che viola questo aspetto viene sanzionata dagli Usa e messa in black list, come è successo a un’azienda italiana che trasportava petrolio venezuelano a Cuba». Oggi in Italia ci sono circa 260 aziende e persone sanzionate negli Usa; da cui il problema, come fa un’azienda italiana a operare con un’altra azienda italiana che è stata sanzionata negli Usa? «Di fatto c’è un’interdizione, perché qualsiasi istituto finanziario applica il sistema non solo americano ma globale» conclude Poggi. «La soluzione per le aziende è dotarsi di un export compliance officer, una figura manageriale che all’interno dell’azienda si affianchi alla direzione per gestire il rischio».
In questo quadro così complesso, la tecnologia digitale ha un ruolo essenziale, a condizione di essere davvero conosciuta e quindi utilizzata al meglio. «Prima della pandemia l’imprenditore era abituato a un mercato più fisico, come quello delle fiere» dice Daniel Rota, ceo di Webidoo, realtà innovativa specializzata in digital transformation e digital marketing, «ma ora si è dovuto abituare al phygital, strutturare per gestire piattaforme di e-commerce come Alibaba piuttosto che strumenti come Linkedin, aprire all’accelerazione e all’adeguamento dei sistemi informatici».
Ma quando si ha a disposizione una Ferrari, un conto è saperla guidare ai 300, un altro ai 60 all’ora come fosse un’utilitaria. «È un tema di cultura digitale, lo strumento è importante ma bisogna saperlo anche utilizzare» rimarca Rota. «Quel che facciamo noi di Webidoo è aiutare le aziende a scegliere la migliore tecnologia, implementargliela, ma non finisce qui; forniamo una persona che affianca tutti i giorni gli imprenditori perché imparino a utilizzarla al meglio, e fa formazione in azienda per far crescere le competenze interne».
Il rischio è quello di perdere l’occasione di fare un cambio strutturale, l’unico in grado di dare un vero booster all’azienda. «Alcune Pmi non sono pronte per fare export» osserva il ceo di Webidoo, «e anche per l’e-commerce non avendo un ufficio export non conoscono le normative. Queste piccole e medie imprese hanno bisogno di essere supportate con servizi, non solo con strumenti tecnologici. È importantissimo formare le aree di business dell’azienda, in questo caso quella dedicata all’internazionalizzazione, e tutte le persone che devono avere a che fare con i relativi strumenti tecnologici. Altrimenti si fa una mera vendita di un prodotto digitale. E poi è anche una questione di costi: un digital export manager di Webidoo, abilitato anche alla gestione di piattaforme come Alibaba, costa mille euro al mese, contro i 60mila annui che può costare assumerne uno».