di Cinzia Ficco

La strada verso il successo è costeggiata di “perché”. Persino vendere bulloni ormai significa offrire una rappresentazione intelligente, in cui la centralità non è più – e solo – quella del prodotto, ma il perché della sua proposizione. Le implicazioni etiche, politiche, territoriali, la capacità di generare senso di appartenenza: sono questi elementi, oggi, a decretare i brand di successo. Esempio: Dior è un marchio di grido perché, nonostante i prezzi stellari dei suoi prodotti, molte donne lo rincorrono e sono ossessionate dalle sue book tote di tela il cui prezzo sfiora i 3 mila euro. La ragione? Vogliono sentirsi parte della comunità Dior, dei suoi valori, del suo lifestyle. Dello status che garantisce.

Per questo è fondamentale che un’azienda abbia e comunichi in modo chiaro i suoi ideali. 

Qualche passaggio precedente alla realizzazione di un brand di successo: la distinzione tra brand e marchio. Se molte agenzie pubblicitarie si limitano a progettare un’immagine accattivante, dietro un brand di successo c’è un lavoro di scavo che deve portare l’imprenditore, il manager a cambiare il proprio punto di vista sull’impresa, sul prodotto o sul servizio, a dargli una dimensione più ampia, comprendente la realtà circostante. 

Ce lo conferma Antonio Romano, docente universitario al Politecnico di Milano, designer a capo di Inarea, prima realtà di corporate branding in Italia: «Il brand è la rappresentazione della personalità di una organizzazione, un prodotto o un servizio. Include il marchio, che è un elemento identificativo. Per capirci, quando io firmo un documento, utilizzo caratteri particolari, lettere magari contratte o allungate. Bene, quello è il marchio che mi identifica, rappresenta e responsabilizza. Ma io non sono solo quello. Ho un universo di valori, idee, sentimenti. Questo è il brand. Per arrivare al successo, bisogna attraversare varie fasi che portano un prodotto o un servizio ad essere prima conosciuto dal consumatore – magari attraverso un’insegna, l’inserzione su una testata giornalistica, un evento, l’utilizzo di uno sponsor o un testimonial – poi riconosciuto e, di conseguenza, scelto. Il brand di successo è quello in cui la persona/consumatore si riconosce e quindi ripone la propria fiducia». Ma può farlo solo se conosce l’anima dell’organizzazione aziendale. 

Come si procede? «Il primo passo – chiarisce Romano – è raccogliere il punto di vista delle persone che ci lavorano attraverso questionari e interviste one- to-one, da cui scopriamo cosa il personale vorrebbe dall’azienda, se ci sono elementi distonici rispetto a quelli che l’azienda stessa tenta di comunicare. Costruiamo una sorta di mosaico da cui estraiamo il fil rouge che unisce queste persone. Un brand per funzionare deve essere lo specchio intelligente dell’organizzazione che vuole rappresentare. Poi si passa al confronto con i best competitor, il benchmark. In seguito estrapoliamo dati che ci parlino dei valori dell’organizzazione e ne facciamo un racconto nuovo. Si stabiliscono il profilo di posizionamento e il modo con cui differenziare un prodotto o un servizio. La caratterizzazione del brand richiede fatica perché oggi nel mondo esistono 50 milioni di marchi registrati e con il digitale c’è una difficoltà ulteriore: la necessità di ricorrere ad elementi scarnificati, adattabili ai vari device».

Passaggi confermati da Francesco Sordi, fondatore dell’Istituto del Marketing Scientifico, docente all’Università Iusve di Venezia e Verona, che chiarisce: «Intanto, il marchio è la presentazione estetica – un logo, un simbolo, un pittogramma – che identifica un’azienda, una linea di prodotti o il prodotto stesso. Il brand è ciò che sta nella mente dei clienti, un’associazione mentale, ciò che pensi di un prodotto, di un’azienda. È quello che il nome di un prodotto evoca. Ed è tanto più forte quanto più è facilmente identificabile dai clienti e quanto più l’idea evocata è comune a più persone. Ci si arriva con indagini qualitative e quantitative, chiedendo alle persone, al mercato come leggono il brand, con chi confrontano l’azienda, in cosa la ritengono migliore o peggiore di altre. Poi occorre individuare un aspetto specifico su cui fare leva. L’errore da non commettere? Non si può prescindere dalle esigenze del mercato e, soprattutto, non si può pensare che il marketing sia solo comunicazione. Il brand è il risultato migliore di come arrivo al cliente, facendogli capire che tipo di prodotto vendo, a quanto lo vendo. E in questo sono molto utili i social. Occorre, però, costruire sempre contenuti di valore». Un brand di particolare successo, per Sordi, è Mercedes: «Non tanti l’hanno guidata – spiega – e nessuno forse ricorda la sua pubblicità, ma in tanti direbbero che è preferibile ad una Fiat, senza saperne spiegare il motivo».

«Anziché parlare di brand di successo – è l’opinione di Federico Frasson, managing director dell’agenzia di comunicazione FKdesign – mi piace parlare di marche polari, quelle che hanno saputo brillare grazie a riconoscibilità, coerenza,  durata, fedeltà, sogno. Una marca popolare fa sognare perché trasmette alle persone significati unici che hanno a che fare con le emozioni. Costruire una marca è un lavoro complesso, un viaggio a tempo indeterminato che parte dalla comprensione del mercato. Per essere polare la marca deve essere fondata su tre ingredienti: rilevanza, credibilità e distintività. Per mantenerla, occorrono guardiani, professionisti che sorvegliano il posizionamento e presidiano il patrimonio di valori dell’identità costruita». Chi ci è riuscito? Secondo Frasson, la Technogym. «Negli anni ha saputo consolidare il proprio posizionamento premium come wellness company. Ha attivato un ecosistema digitale di esperienze uniche e personalizzate, attraverso collaborazioni con fitness club esclusivi, aziende innovative e personaggi noti che hanno contribuito ad elevare sempre più la sua esclusività. Technogym oggi si identifica come marca di categoria».

Graziano Giacani, ideatore del Brand Festival e autore di “Inversione di Marca” (Hoepli), crede  «in un nuovo equilibrio tra brand, territorio e persone che si può generare approfondendo, salvaguardando ed evolvendo le unicità che nascono dalla cultura italiana. Parlo di un valore differenziante della marca made in Italy, non più legato ai tecnicismi del prodotto, ma all’esclusività dell’habitat che lo ha concepito. Così le eccellenze italiane possono diventare sia attrattori che garanti dei valori della propria terra». 

Come mantenere la rotta? Una soluzione tutta italiana è la prima normativa sulla progettazione e gestione della marca, la Uni/PdR 11: 2022, nata dal tavolo di progetto Marcare che ha coinvolto per 2 anni di lavoro i più autorevoli esperti del settore, tra cui Giacani, ed entrata in vigore nel luglio scorso. È complementare ai principi della Uni Iso 20671:2019 “Valorizzazione del brand – Principi e fondamenti” e si propone come strumento per la progettazione (brand design) della marca e la gestione della marca (brand management) finalizzata a un progressivo incremento della forza della marca (brand strength), scomponendo l’intero processo nelle sue fasi evolutive.