Un grande rimpianto, un rimpianto vero.
Quando se ne va un grand’uomo come Eugenio Scalfari – uno dei pochi veramente grandi conosciuti personalmente (e non solo nel giornalismo) – è umano raccontare se stessi, mettersi in vetrina proprio attraverso il racconto del ricordo che si ha dello scomparso. È umano ma sbagliato, perché del ricordo di chi resta non importa niente a nessuno. Episodi, battute, lettere: sono un repertorio privatissimo che deve restare tale.
Ahimè, però, nel caso di chi scrive – questo è il punto – è un repertorio piccolo, frutto dei tre anni o poco più durante i quali ebbi Scalfari come direttore a Repubblica e un po’ anche degli altrettanti in cui, con la direzione di Ezio Mauro, ebbi comunque occasione di rivederlo spesso.
Una sola cosa su questo punto va detta ed è la certezza di avere avuto sempre qualcosa da imparare ogni volta che si riusciva ad ascoltarlo o, meglio ancora, le rare volte in cui capitava di parlargli in privato. Di essere sempre uscito arricchito dal rsapporto diretto con lui, anche quando – e capitava – il colloquio era asciutto se non severo.
Di qui il rimpianto: aver bruciato l’esperienza, non aver capito fino in fondo, vivendola, quale privilegio rappresentasse. Altro che tre anni. C’era da imparare per molto molto tempo in più.
Certo, da giovani si è presi da mille stimoli concorrenti tra loro, non è facile discernere e capita di perdere la visione delle giuste priorità. E invece si dovrebbe avere sempre la capacità di riconoscere e apprezzare appieno il valore del tratto di strada che si sta percorrendo e soprattutto dei punti di riferimento che si è avuto la ventura di incontrare.
Grazie, Direttore.