Giordano Riello

All’inizio, il provvedimento era parso inevitabile, anche se non adeguato e con gravi ripercussioni sul futuro. Durante le prime settimane della pandemia, proprio nei giorni in cui su tutti gli schermi delle case degli italiani scorrevano le immagini dei camion militari che portavano via da Bergamo le bare che i cimiteri non erano più in grado di accogliere, ecco, in quell’atmosfera post-apocalittica il Governo aveva deciso di basare la strategia sul lavoro su due pilastri fondamentali: il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione Covid (4 miliardi di ore autorizzate, con un costo per lo Stato di 20 miliardi di euro), provvedimenti che da un lato hanno comunque permesso di evitare, anche se non del tutto, una grave emorragia di posti di lavoro nei mesi più duri del lockdown e dall’altro hanno fatto risparmiare alle aziende i costi degli ammortizzatori sociali: anche qui,  solo in parte. E con il nuovo decreto ristori si promettono nuovi indennizzi «oculati, selettivi ed equi», e alle 12 settimane di cassa integrazione (tra ordinaria e in deroga) già ammesse dalla legge di bilancio per il 2021 se ne dovrebbero aggiungere altre 26. Oltre a un “blocco selettivo dei licenziamenti”. In alternativa, dovrebbe essere confermato un esonero contributivo per quelle aziende che fanno rientrare i dipendenti.

Detassando gli utili reinvestiti in azienda il mondo imprenditoriale così come quello occupazionale tornerebbero ad avere prospettive

Intanto, dopo quasi un anno dall’emanazione del blocco dei licenziamenti, provvedimento che è un caso unico in tutto il mondo e che è già stato già prorogato due volte, davanti alla prospettiva di un ulteriore allungamento fino all’estate inoltrata  il dibattito si infiamma: da un lato ci sono gli imprenditori, che già in occasione della precedente proroga avevano lanciato l’allarme davanti agli ordini in caduta libera e chiesto di poter tornare al regime ordinario, che si trovano a contestare duramente una politica che sembra mirare più all’assistenzialismo che allo sviluppo e dall’altra i sindacati, che invocano al contrario una proroga di tutti i tipi di ammortizzatori: «La prima cosa da fare, qui in Italia», spiega Giordano Riello, quinta generazione degli imprenditori veneti di Aermec, presidente di Nplus e già membro dei Giovani di Confindustria, «è invertire il paradigma, perché abbiamo sempre parlato di blocco dei licenziamenti e mai di sblocco delle assunzioni. Il mercato del lavoro si è letteralmente drogato, in questi mesi, mantenendo vivi posti di lavoro che sono inesistenti o che man mano sono venuti a mancare. Però non abbiamo creato a monte le condizioni  per le quali le imprese possano continuare a investire all’interno dei nostri confini nazionali: con queste premesse, il blocco dei licenziamenti è del tutto inutile. È come prendere la tachipirina per combattere un’infezione: magari al momento la febbre si abbassa, ma per guarire davvero prima o poi ci vuole l’antibiotico».

Ma certamente creare le condizioni per cui le imprese possano tornare presto a investire non è facilissimo, con i tempi che corrono. Una proposta sensata e concreta, però, il giovane Riello l’ha anche già portata all’interesse del Governo, durante gli Stati generali indetti nello scorso mese di giugno: «C’è uno strumento che potrebbe subito portare respiro al mondo imprenditoriale», spiega Riello, «ed è la detassazione degli utili reinvestiti in azienda. Trovo che sia perverso e immorale pagare le tasse su utili che ho prodotto e che ho deciso di re-investire per generare occupazione e crescita, rimettendo in moto l’indotto e dando la possibilità al mio territorio di crescere con l’impresa. Se assumo persone, questi sono individui che avranno uno stipendio, pagheranno le tasse, generando quindi per lo Stato – in termini di gettito fiscale – un circuito positivo. Al momento questo strumento, che è etico oltre che utile, è l’unico modo per tamponare quello che potrebbe essere e sarà un vero e proprio bagno di sangue in termini di licenziamenti».

La transizione alla normalità e l’avvio delle ristrutturazioni vanno gestite a valle di politiche che sappiano sbloccare i capitali

E in quel caso, gli imprenditori non ci stanno a finire sul banco degli imputati come i responsabili di una mostruosa emorragia di posti di lavoro che dalle parti di Palazzo Chigi si pensava di tenere a bada solo con cassa integrazione, blocchi e piccoli bonus a pioggia senza alcuna strategia. «Una cosa deve essere molto chiara», continua Giordano Riello: «i nostri collaboratori sono la nostra famiglia, li abbiamo formati (e ricordiamoci che formare la forza lavoro è un costo sia in termini economici che di tempo) e quindi non abbiamo nessun interesse né strategico né economico per lasciarli a casa. Ma alle spalle delle aziende deve esserci un Paese competitivo, che ci permetta di fare impresa: in caso contrario, non si potrà certo condannare un imprenditore che licenzia perché semplicemente non c’è il mercato, sparito nell’onda lunga di una crisi che poteva e doveva essere gestita molto meglio».

Di tutt’altro parere, manco a dirlo, il mondo dei sindacati, quantomeno quello legato alla Cisl, che ritiene ovviamente ineludibile il prolungamento del blocco dei licenziamenti e di tutte le indennità legate al Covid, ma che comunque è consapevole delle difficoltà delle aziende e quindi della necessità di aiuti per le imprese. Solo che si punta sul “fondo perduto”: «Senza la proroga dello stop ai licenziamenti e la conferma delle indennità e delle Casse Covid», spiega Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto della Cisl, «oggi saremmo in condizioni assai peggiori. La transizione alla normalità e l’avvio delle ristrutturazioni vanno gestite con grande responsabilità, a valle di politiche che sappiano sbloccare capitali produttivi e strategie di coesione. Fino al termine della fase emergenziale bisogna procedere contemporaneamente su tre direttrici: confermare le protezioni sociali Covid per tutti, senza oneri per le aziende, rinsaldare gli aiuti a fondo perduto per le imprese e rilanciare gli investimenti pubblici per stimolare la crescita.  Sono tre colonne che devono stare su insieme: se una viene meno, rischia di far crollare l’intero edificio della ripresa».

E sulle strategie di ripresa a lungo termine, dato che ovviamente il blocco dei licenziamenti non potrà durare in eterno, il sindacato punta tutto su confronto e concertazione: «Il Governo deve aprire una fase di confronto permanente e strutturato con il mondo del lavoro e dell’impresa», continua Sbarra, «per innovazioni veramente concertate, che mettano a sistema progetti, risorse nazionali, dotazioni europee del Recovery Fund, del Piano Sure e anche del Mes sanitario. La Cisl ha indicato 10 grandi priorità che attraversano i temi dell’occupazione e dei giovani, della sanità e della scuola, dell’ambiente e della digitalizzazione, delle infrastrutture e del Mezzogiorno, della pubblica amministrazione e delle politiche sociali».

Nel frattempo, a Nunzia Catalfo, alla guida del Ministero del Lavoro, da più parti vengono mosse accuse di aver preso le poche e insufficienti decisioni riguardanti un settore così fondamentale porgendo eccessivamente orecchio ai suggerimenti della Cgil: mentre il Tesoro stima in 5 miliardi il costo di un ulteriore proroga del blocco e nessuno prende in considerazione i lavoratori temporanei, le partite Iva, i giovani appena entrati nel mercato, che secondo le stime hanno già perso il lavoro in 500mila.

La crisi del resto continua a mordere, soprattutto le piccole e piccolissime imprese: in un sistema come quello italiano, dove il 96% delle aziende ha meno di 9 dipendenti, il momento della resa dei conti e della simbolica esplosione della bolla è vicino: «Il bagno di sangue di cui parlavo prima», conclude Giordano Riello «coinvolgerà soprattutto piccole e micro imprese. In Italia, purtroppo, soffriamo di nanismo industriale: già in tempi normali l’impresa piccola non è competitiva, essere piccoli non ti permette di finanziare il circolante, di mantenere l’azienda liquida, di fare investimenti né di andare all’estero. Figuriamoci cosa succede in tempi di crisi come quello che stiamo vivendo. Noi pertanto stimiamo che a breve andranno persi circa 250mila posti di lavoro. È un numero enorme, corrisponde all’1% della popolazione lavorativa, è come se dall’oggi al domani l’intera città di Verona si trovasse disoccupata. Davanti a questi numeri, riteniamo che dal Governo debbano arrivare ben altri e ben più forti segnali».