Caltagirone ha il 7% del capitale delle Generali, ai valori di oggi circa 2,2 miliardi di euro. La famiglia Del Vecchio (che controlla EssilorLuxottica) ha circa il 20% di Mediobanca (2 miliardi di valore) e qualcosa in più del 10% delle Generali.
Per comprarsi queste quote i due gruppi hanno investito parecchi soldi, e i loro capi sono arrabbiati perché vorrebbero comandare e invece non contano niente. Hanno ragione o hanno torto?
Bella domanda. Di sicuro pretendono di aver ragione. E poiché hanno entrambi perso l’ultima sfida numerica nelle assemblee dei soci delle due imprese dove sono entrati in forze acquistando azioni in Borsa, stanno in questi giorni lavorando di lobby per ottenere una legge “ad personam” che permetta loro di contare di più senza cacciare ulteriori soldi dove potrebbero (Generali) e dove anche volendo non potrebbero (Mediobanca) o non servirebbe perché non avranno mai il permesso della Bce o quantomeno il permesso di avere un potere proporzionale alla quota di capitale conquistata.
IL LOBBYING AL SERVIZIO DEGLI SCALATORI
Lavorano di lobby sul cosiddetto Ddl Mercati, un disegno di legge presentato dal governo Meloni (gestione Giorgetti) per migliorare una serie di regole che valgono per le società quotate in Borsa tra le quali quelle che danno molta autonomia ai consigli d’amministrazione e difendono quei criteri di nomina di questi consigli che danno peso al loro stesso ruolo, compreso il diritto di un consiglio uscente di proporre all’assemblea dei soci liste di nuovi consiglieri (o gli stessi rinnovati, se possibile) coerenti con quelle in fine mandato.
Queste regole vanno migliorate perché gli ordinamenti internazionali le contemplano e la Borsa italiana , se non si adegua, finisce disertata dai grandi capitali internazionali gestiti dai fondi di investimento. Vanno migliorate, non peggiorate.
Invece, sul testo del decreto, scritto dal Ministero dell’Economia in termini piuttosto validi e originariamente compatibili, se non proprio allineati, con le migliori pratiche internazionali – quelle che garantiscono almeno un po’ di tutela degli interessi di tutti i soci, comprese le minoranza – è piovuta una gragnuola di emendamenti verosimilmente ispirati (lo dice la logica del “cui prodest?”, a chi giova?) dai lobbisti di Caltagirone e Del Vecchio – su cui il Parlamento dovrebbe decidere in questi giorni. Senza forse neanche ben sapere (quantomeno, non tutti i parlamentari coinvolti) qual è la vera posta in gioco.
UN EMENDAMENTO CHE NON EMENDA
Proviamo a spiegarci, anche se è un rompicapo che appassiona il giusto. Emendamento, etimologicamente, è un qualcosa che migliora, non che peggiora. E invece…
Chiariamo: non è che da una parte c’è il bene e dall’altra il male, quello che si gioca su Generali e Mediobanca è un derby tra poteri diversi, ma di sicuro i due gruppi industriali “aggressori” dello status quo, che si pongono come innovatori, non hanno il profilo giusto per esprimere nei due colossi gestioni migliori delle attuali. Mentre Generali e Mediobanca gestiscono gli interessi di milioni e milioni di risparmiatori e assicurati, i pretendenti fanno tutt’altro: son bravi a produrre cemento e costruire palazzi e opere civili (Caltagirone) o occhiali (Del Vecchio), non c’è prova che saprebber far meglio (cioè: far fare meglio) di Nagel a Mediobanca o Donnet alle Generali. Quindi non c’è motivo di pubblico interesse per cambiare le squadra gestionali attuali. Ci sono motivi privati, comprensibilissimi; ma la legge – quella su cui i lobbisti pretendono di influire – deve curare gli interessi collettivi, non quelli di due famiglie.
L’analisi va disgiunta. In Mediobanca – che è un istituto di credito – regnano le regole (peraltro in tanti casi vincolanti, ferree) della Banca centrale europea. Per la quale un gruppo industriale com’è Luxottica non può comandare. Può investire, questo sì, per intascare i dividendi e anche influire, dicendo la sua in assemblea dei soci, e magari nominare uno o due consiglieri, ma non può pretendere il comando. Deve essere puro “socio finanziario”.
Perché? Perché nel nostro Paese (ma non solo) troppe volte è capitato nella storia che gruppi imprenditoriali bisognosi di soldi per le loro attività specifiche entrassero nel capitale di banche per farseli prestare a condizioni di favore. I dissesti finanziari di istituti come la Banca popolare antonveneta, la Banca popolare di Vicenza, Veneto Banca o Banca popolare di Bari nascono proprio da queste patologie. L’indimenticabile amministratore delegato della Comit Sergio Siglienti definiva questi azionisti interessati “debitori di riferimento”, parafrasando ironicamente la definizione di “azionisti di riferimento” che si usa spesso nel diritto societario.
I SOCI ISTITUZIONALI NON LA BEVONO
Di fatto, nel capitale di Mediobanca prevalgono, anche numericamente, gli azionisti cosiddetti “istituzionali”, cioè fondi di investimenti, italiani e soprattutto stranieri, ai quali la gestione espressa dall’attuale a.d. Alberto Nagel va benone perché ha reso pingui dividendi e una costante valorizzazione del titolo. Non a caso, all’ultima assemblea, questi soci finanziari “puri” hanno votato compatti a favore delle indicazioni date dal consiglio uscente, e quindi dalla squadra di Nagel.
Stessa cosa nel capitale delle Generali, dove però le regole di tipo prudenziale per impedire a soci di natura industriale di crescere nel capitale sono meno ferree che in una banca, e infatti Del Vecchio ha recentemente ottenuto la possibilità di salire di quota…
Ma la sostanza del problema non cambia.
Leonardo Del Vecchio, scomparso da poco, e il management da lui insediato, oggi anche ottimamente coadiuvato da uno dei figli del fondatore, hanno fatto del gruppo Luxottica un successo planetario, ma questo non implica che saprebbero gestire meglio le Generali o Mediobanca, o scegliere manager migliori degli attuali per gestirle. Salgano di quota, se possono o fino al punto in cui possono; oppure, non potendo o non volendo, facciano accordi con altri azionisti – convincendoli delle loro ragioni – e prevalgano alla conta dei numeri in assemblea. Usino il denaro nel senso lineare, cioè acquistando altre azioni. O convincano i colossi della gestione finanziaria, che ne sanno più di loro, a votare insieme a loro: se ci riescono. Sarebbe questa la strada maestra, la formula di un confronto “fair”, leale.
Invece no: oggi si suggeriscono emendamenti. Per imperdire ai consigli uscenti di designare e proporre a tutti i soci nuovi consigli culturalmente in continuità.
UNA DEGENERAZIONE ITALIOTA
E qui comincia la degenerazione italiota, di questo scontro di potere. Nel maggio scorso, il governo Meloni infilò nel cosiddetto decreto-Fuortes un comma di due righe (che diceva più o meno: “una lista di amministratori societari proposta all’assemblea dei soci dal cda della società stessa è legittima”). In realtà quella breve norma era emendabile, come tutte: al punto che qualche dietrologo pensa che fosse stata inserita in quella formula minimalista proprio per fara emendare!
La cosa è rimasta in sordina, poi è arrivato il Ddl Capitali, che ha assorbito quella norma. Il Senato lo sta discutendo il Ddl Capitali da giugno. Attenzione: come da prassi, la Commissione ha “audito” vari soggetti competenti, associazioni e tecnici. Più un solo soggetto privato: Caltagirone! Sarà perchè produce cemento (tra l’altro molto anche in Cina)? O forse perché è editore di Messaggero e Mattino, testate ancora importanti a Roma e a Napoli?
Fatto sta che dopo l’audizione del Calta sono piovuti emendamenti al Ddl, da esponenti della maggioranza, soprattutto Fratelli d’Italia. Se passassero, di fatto neutralizzerebbero ruolo e ambiti della lista indicata dal Cda, vanificandola e dando potere a Caltagirone in Generali, ben al di là del suo attuale 7% e forse anche a Del Vecchio in Mediobanca (di nuovo: forse, perché lì c’è sempre la vigilanza bancaria a presidiare).
Ma non basta: se passassero quegli emendamenti, ne trarrebbero vantaggio anche i soci francesi di Tim e chiunque volesse speculare – soprattutto dall’estero – sull’azionariato frastagliato di Unicredit. Altri due autogol (clamorosi per un governo che si autoproclama alfiere dell’italianità) per il buon andamento di altre due grandi aziende che il governo non dovrebbe disturbare.
Entrare nel merito dei singoli emendamenti richiederebbe un trattato di diritto societario: ma il loro succo è quello. Considerata la figura marrò fatta dal governo Meloni con la goffa tassa parzialmente ritrattata sugli extraprofitti bancari, e considerato che le liste del Cda sono apprezzate in tutto il mondo dai grandi investitori istituzionali, se il governo dà retta a Caltagirone & C: risospinge ulteriormente l’Italia nel ghetto dei Paesi dove non è prudente investire perché suil più bello spunta il Paperone di turno e impone i suoi interessi a colpi di emendamenti. Auguri.