Siamo sicuri che nel dibattito su presente e futuro del lavoro, nell’analisi del fenomeno della “Great Resignation”, nella messa a punto di soluzioni per la cosiddetta “employee retention” o per rafforzare l’engagement nelle aziende non si trascuri spesso un elemento nuovo e, a suo modo, disruptive, come la magnetica attrazione delle generazioni più giovani verso attività – parlare di “lavori” o di “professioni” francamente suonerebbe come un’antinomia – che, dalla dimensione puramente ludica oggi, ai tempi dei social, hanno una ricaduta altamente remunerativa come quelli dell’influencer, del content creator o del gamer?

Post-Millennials e nuove aspettative

Non v’è dubbio che, da un lato, sul piano generale, bisogna riconoscere alla Gen Z o PostMillennials che dir si voglia, un maggior tasso di conoscenza e di consapevolezza rispetto a temi attinenti l’etica, l’ecologia, l’inclusione, la diversità, la giustizia sociale, il rispetto della persona. Conoscenza e consapevolezza che, non si rado, si traducono in criteri di scelta e obiettivi, rispetto al lavoro, molto diversi rispetto a quelli che avevano le generazioni precedenti alla loro.

Ma dall’altro, questi ragazzi, che oggi hanno 25-26 anni, arrivano alla fine del percorso di studi – e dunque in teoria al passaggio nel mondo del lavoro – anche con un approccio e dei paradigmi completamente differenti, se non ribaltati, in confronto agli over 35. Quali saranno mai l’idea e le aspettative di “carriera” per chi è nato davanti al web ed è cresciuto sui social network?

Ufficio come status-symbol, addio

C’è stato un tempo – e in certi mondi forse è ancora così – in cui “l’ufficio” era uno status-symbol. La stanza ai piani alti. La poltrona presidenziale griffata. La scrivania enorme in radica. Le piante. La vetrata con vista mozzafiato. Dietro questa immagine c’era una concezione molto “fisica” del lavoro, della carriera e del successo professionale. La digital transformation e la “smaterializzazione” dei modelli organizzativi del lavoro hanno messo in discussione anche quest’aspetto. Il Covid – con la diffusione forzata dello smart working e quella strana fusione a freddo tra lavoro e vita privata che il lockdown ha portato in dote – ha fatto il resto.

Oggi, nell’ultima survey di Deloitte, sia gli appartenenti alla Gen Z che i Millennial, interrogati sulla modalità lavorativa ideale, hanno risposto convintamente che “la soluzione più desiderata è la piena flessibilità, ovvero la possibilità di stabilire in autonomia se lavorare da casa o da remoto”. A dimostrazione che, nei più giovani – o almeno tra quelli che se lo possono permettere, perché le loro mansioni non implicano presenza fisica – i confini tra l’ambiente di lavoro e quello domestico sono molto più labili e ormai quasi per nulla percepiti rispetto alle generazioni precedenti.

Addio al sogno dell’ufficio figo, della scrivania importante e della vetrata panoramica, insomma. Ai ragazzi evidentemente frega assai poco, visto che preferiscono lavorare tranquillamente da casa e – circostanza ancora più significativa – la maggioranza di GenZ (80%) e Millennial (79%), sempre secondo la “Global 2023 Gen Z and Millennial Survey”, lascerebbe addirittura il proprio lavoro “se costretta a tornare in ufficio a tempo pieno”.

Gen Z, meglio gli amici che la carriera

Ma lo studio di Deloitte, che ogni anno svela puntuale i nuovi orientamenti al lavoro dei giovani, a maggio scorso ha certificato un gradiente probabilmente ancora più epocale nella storia del rapporto tra l’uomo e il lavoro: “Molti giovani – si legge nel report –hanno messo in discussione la gerarchia di valori che dà senso alla loro vita: in Italia 7 intervistati su 10 affermano che famiglia e amici sono più importanti della carriera. Un dato che si riflette nella grande importanza attribuita al work-life balance e al lavoro ibrido, ormai considerato new normal“.

In sostanza, per il 70% dei nostri ragazzi amici e famiglia contano più della carriera, sono ciò che dà più “senso di identità” alla GenZ e ai Millennial italiani.

Il lavoratore 3.0 tutto smart working e indipendenza

Ricapitolando: flessibilità come condizione irrinunciabile, scarso interesse verso la vita d’ufficio propriamente detta, più peso alla vita extra-lavorativa con amici e famiglia che alla carriera. L’identikit del lavoratore 3.0 è facile da tracciare. Così come è facile dedurre che per un giovane con questo tipo di approccio al lavoro, molto verosimilmente è più attraente un tipo di attività professionale da svolgere in maniera autonoma e in un ambiente più friendly, più congeniale, più attagliato alla propria di scala di valori/priorità.

Che, come abbiamo letto nella “Global 2023 Gen Z and Millennial Survey” di Deloitte, vede ai primi posti gli amici e la famiglia e non certo la carriera professionale intesa in modo convenzionale. Quale modo migliore, dunque, per guadagnarsi da vivere se non sfruttando le opportunità offerte dalla tecnologia? Magari attraverso contenuti creati per il web oppure mostrando le proprie abilità con i videogame, sempre comodamente da casa, in mezzo ai propri cari e in piena autonomia?

Content creator, il lavoro più ambito sembra un gioco

Lo spartiacque che lascia da un lato l’approcciosenioral mondo del lavoro come l’abbiamo conosciuto e dall’altro dà sfogo a nuove identità lavorative – più afferenti alla sfera del “gioco” che a quella delle professioni tradizionali – come content creator, youtuber, streamer o gameplayer, vlogger etc etc. sta proprio in questo aspetto di soddisfacimento del proprio personalissimo sistema valoriale.

Non è un caso che, secondo il “JAMES focus”, un rapporto sul tema “influencer e la vita perfetta delle altre persone” messo a punto dalla Scuola di Psicologia Applicata dell’Università di Zurigo, “da un’analisi delle professioni maggiormente ricercate in Google («how to be a…») emerge che le denominazioni professionali di YouTuber (4° posto) o influencer (7° posto) sono considerate professioni ambite (Remitly, 2022)”.

Lavorare con i social, è il futuro del mondo del lavoro?

Se, dando per acquisiti questi elementi, proviamo a disegnare una traiettoria degli interessi delle generazioni presenti e, soprattutto, future, scopriremo ben presto che essa potrebbe assomigliare a un asintoto, una retta che si allontana dal mondo del lavoro tradizionale per non toccarlo più e tendere invece verso l’infinito.

Fuor di metafora geometrica, più che limitarsi ad analizzare il quiet quitting e abbozzare strategie di engagement aziendale – o, peggio, questionare su possibili deterrenti normativi alle distorsioni patologiche dei nuovi lavori legati ai social solo quando sconfinano nella cronaca nera, come nel recente caso della tragedia di Casalpalocco – forse sarebbe il caso di approfondire ben benino il tema “come i giovani immaginano la propria vita lavorativa nel prossimo futuro”.

Perché il rischio, sempre più tangibile, è che negli uffici, nelle aziende, negli enti pubblici e privati, tra un paio di decenni non ci sarà più nessuno.