di Giorgio Vizioli
È l’assillo di tutti i formatori professionali. L’adulto, a differenza di un giovane studente, vuole sempre sapere l’obiettivo immediato per il quale sta seguendo un corso, spendendo tempo e denaro. Messa così magari è un po’ brutale, ma senz’altro è sincera. Quando affronta un corso di formazione, infatti, il manager lo fa per risolvere un problema specifico, soddisfare una esigenza immediata, colmare una lacuna ben definita. E, avendo esperienza del proprio lavoro, può verificare in tempo reale (o comunque ritiene di poterlo fare) se ciò che gli viene insegnato gli serve realmente. «Ciò che caratterizza la formazione per adulti, spiega Andrea Bet, consulente aziendale e formatore, Ceo della LeanBet di Bologna, è proprio questa differenza di paradigma: l’adulto vuole capire fin dall’inizio come trasformare ciò che impara in azioni concrete, da utilizzare in tempi brevi. Quindi occorre segmentare l’insegnamento su tre livelli: in primo luogo, cosa fare, in secondo luogo come farlo e infine (soprattutto) perché farlo».
Peraltro, oggi, forse più che in passato, l’esigenza di formazione e aggiornamento, a tutti i livelli, è molto sentita. Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno indotto, e in certi casi accelerato, forti dinamiche evolutive nel mondo del lavoro e non solo, senza contare l’irruzione sulla scena delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale. Tutte sfide che mettono ogni giorno a dura prova anche i manager più navigati ed esperti, che sentono quindi il bisogno di dotarsi di strumenti adeguati a gestire e governare il cambiamento, partendo prima di tutto da se stessi. Ed ecco allora che entrano in gioco metodologie di training che si pongono l’arduo compito di rispondere alle richieste espresse dal manager-allievo, ma anche di soddisfare esigenze che, a volte, il manager stesso non sa di avere.
Per questo motivo, molte tecniche di formazione prevedono il ricorso a strumenti che esulano dalla docenza tradizionalmente intesa, mescolando sapientemente diversi livelli di intensità didattica, alternando momenti più densi di contenuti con fasi di leggerezza e di divertimento, che scarichino il senso di fatica e agevolino l’acquisizione dei contenuti. «La formazione ideale, aggiunge Bet, deve essere essenziale, agile. O, come si dice: lean. Un risultato che si ottiene eliminando quanto più possibile gli elementi che non possono essere messi a valore».
Un altro fattore importante è il collegamento della formazione teorica con l’esperienza. Non si tratta peraltro di un approccio nuovo, anche se naturalmente è stato via via adeguato alle esigenze del nostro tempo. Le sue radici risalgono infatti da un lato al metodo americano Training Within Industry, concepito e messo in pratica addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale e poi ripreso e arricchito da Toyota negli anni Sessanta, e dall’altro nel cosiddetto cono dell’apprendimento di Edgar Dale.
Ma qual è l’atteggiamento dei manager di fronte a metodi di formazione non convenzionali? Sono disponibili a fidarsi e affidarsi? «La domanda invita a una risposta non proprio scontata», spiega Guido Di Martino, amministratore delegato di Structogram Italia (vedi riquadro), Iabi Istituto Analisi Biostrutturale Italia di Affi (Verona), «poiché più che gli strumenti è la percezione della dimensione umana e soggettiva a essere cambiata negli ultimi decenni. In piena era industriale, che io definisco l’era del processo e della cultura organizzativa, era molto presente un approccio strutturato ai compiti, con una predilezione per la funzionalità piuttosto che per la produttività personale. La produttività era per lo più intesa come risultato di un processo. Oggi, la produttività integra anche una condizione dell’essere che influenza anche la qualità e la quantità della produzione».
«Uno dei primi compiti del formatore», aggiunge Giorgio Carnesecchi, trainer internazionale, titolare di Aria Studio di Arese (Milano), «è proprio quello di fare capire ai manager che l’obiettivo aziendale da perseguire può essere raggiunto in modo più efficace intervenendo sulle cause invece che sugli effetti, ossia sul benessere delle persone invece che sugli aspetti più specificamente legati alla professione. Se supportate da una adeguata consapevolezza delle proprie capacità, infatti, le persone hanno un rendimento migliore in qualunque ambito si impegnino e in ogni settore. Per ottenere questi risultati, occorre quindi una combinazione di strumenti, che tengano conto delle richieste del cliente e delle sue reali esigenze».