Fatta la app (Immuni), trovato l’ingannodi dover scegliere tra sicurezza e libertà

Ineludibile digitale

Si può vivere senza plastica? No: eppure non si fa che discutere su come smaltirla, limitarne lo spreco, insomma non farsene sommergere. Si può vivere senza digitale? Neanche per sogno, il digitale è il mondo intorno a noi, è la più grande invenzione dell’umanità dopo la scrittura, è tutto ciò che abilita l’oggi e il domani. Ma non si discute abbastanza su come utilizzare al meglio tutto ciò senza farsene sommergere, schiavizzare, annichilire. Ed è quel che con visibili contraccolpi nocivi sta purtroppo iniziando ad accadere, sia nella riproposizione aggravata di alcuni mali storici dello sviluppo – l’oligopolio, ad esempio – sia nel manifestarsi di nuove affezioni: il controllo mentale, ad esempio, e la morte della privacy. Andrea Granelli è tante cose, ma è anche un tecnologo umanista, autentico pioniere di Internet, autentico tutore dell’umano  nello scientifico, dell’essere nell’avere e del sapere nel millantare. Ha onorato Economy di questa rubrica che, dopo un paio di test, dal numero che state leggendo diventerà un appuntamento fisso.

Buona lettura. (s.l.)

Perché una rubrica sulla tecnologia? 

Dipenda o no dalla nuova ricerca scientifica, la tecnologia è un ramo della filosofia morale, non della scienza (Paul Goodman, New Reformation. Notes on a Neolithic Conservative). Costruire con il digitale un rapporto più intimo – meno superficiale ma anche più critico – andando oltre le apparenze, le mode, gli slogan commerciali. Il digitale è un potente pharmakon, che può curarci o avvelenarci a seconda di come e in quale contesto lo utilizziamo. Perciò dobbiamo conoscerne le logiche di funzionamento e le possibilità applicative – anche le più remote – per usarlo al meglio e non farci usare. Esistono infine aspetti che esulano dal rapporto utente-fornitore e toccano i temi della regolamentazione, possono essere cioè affrontati solo dall’Autorità Pubblica che ne deve normare i comportamenti per tutelare gli utilizzatori. Nel digitale, infatti, è sempre più centrale il principio di responsabilità (da alcuni ribattezzato principio di precauzione) – enunciato nel 1973 al filosofo Hans Jonas – che fornisce indicazioni su come affrontare i delicati problemi etici e sociali sollevati dall’applicazione incessante della tecnologia in tutti gli aspetti della vita. La sua premessa è che – grazie al potenziamento della tecnologica – «il fare dell’uomo è oggi in grado di distruggere l’essere del mondo». Il cuore del suo principio – detto anche non a caso di “precauzione” – è che «non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire». L’uomo deve dunque agire in modo che le conseguenze della sua azione siano «compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra». L’imperativo fondato sul principio di responsabilità, che nella sua forma semplice presuppone una tendenziale ipotizzabilità delle conseguenze, deve essere pertanto adattato al fatto che questa responsabilità si estende ora all’ignoto.Nella sua forma più nota, viene così formulato: le autorità pubbliche, di fronte a un rischio la cui esistenza sembra plausibile ma non è o non è ancora scientificamente dimostrata, possono prendere misure di controllo o di interdizione proporzionale alla gravità del rischio potenziale individuato.  Questo principio si assume anche una sorta di “responsabilità intergenerazionale”, poiché vuole rappresentare anche gli interessi delle generazioni future, che oggi non hanno rappresentanza (formale e autorevole) – e quindi voce in capitolo – su ciò che condizionerà il loro presente.

Il digitale applicato alla mobilità è un ottimo laboratorio per studiare sia le potenzialità che i grandi rischi associati all’adozione diffusa di piattaforme per la raccolta dei dati; rischi spesso non immediatamente visibili o perimetrabili. A parte i temi tecnici relativi alle prestazioni e robustezza della soluzione digitale che si vuole adottare, la questione centrale è la privacy: tracciare movimenti e relazioni dei cittadini in modo sistematico e continuativo cambia il concetto di libertà e anche di sicurezza. Michel Foucault aveva già compreso quanto la politica si stesse trasformando in biopolitica e cioè quante connessioni vi fossero tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica. Nei fatti le riflessioni di Foucault hanno contribuito a definire la gestione moderna delle epidemie, che egli ha chiamato “apparato di sicurezza”, che si è esplicitata nel tardo diciassettesimo secolo, quando epidemie urbane come il vaiolo e il colera non vennero più gestite tramite una divisione binaria fra sani e ammalati – come era normalmente fatto per epidemie come la peste – ma piuttosto tramite la quantificazione e gestione dei rischi valutati su tutta la popolazione. La circolazione veniva limitata secondo Foucault non solo alla città ma agli ambienti (i milieux), con spazi complessi costituiti da tutti gli elementi materiali capaci di interferire con la vita di una popolazione.Nell’era del CoVid uno degli strumenti più potenti al servizio della moderna biopolitica ha a che fare con la creazione di nuovi sistemi (noi oggi diremmo piattaforme) per controllare e prevenire il rischio di infezioni. Ma dietro gli indubbi benefici di questo strumenti, vi sono alcune dimensioni fortemente problematiche. Gli esperti di digitale sanno bene che i dati sulla posizione quanto più sono precisi tanto più sono difficili da “anonimizzare” completamente. Ci sono tecniche che derivano dall’intelligenza artificiale – una per tutte il Generative Adversarial Network – che ingannano i programmi con degli input costruiti ad hoc e riescono a far emergere correlazioni che si voleva nascondere. In altri casi l’unione e l’incrocio dei dati di posizione (misurati con le celle telefoniche o con il posizionamento satellitare) con altri set di dati (provenienti dalle telecamere di sicurezza, dai pagamenti con le carte di credito o dall’interazione sui social) riesce a de-anonimizzare le informazioni. In altri casi ancora le informazioni sensibili (ad esempio sanitarie o finanziarie) separate da quelle più neutre per motivi di sicurezza vengono ricollegate grazie a operazioni criminali (penetrazioni informatiche in database protetti, decrittazione delle informazioni). Dobbiamo valutare la sicurezza di un programma come Immuni anche in funzione del fatto vi saranno realtà criminali che faranno di tutto per accedere a quelle informazioni. Questa affermazione, che può sembrare scontata e quasi naive, non lo è affatto. In un articolo su The Economist nel 2017 si evidenziava quanto le innovazioni fossero sempre pensate – da chi le progetta o da chi decide di adottarle – per buoni fini e il fatto che i primi a utilizzare in modo sistematico potessero essere i malfattori (i “wrongdoers” nell’articolo) non era quasi mai contemplato. Ma i rischi sono più che ipotetici, soprattutto se parliamo di informazioni sensibili e preziose. E inoltre dobbiamo ricordarci che lo stato di eccezione rischia sempre di diventare lo stato di normalità. Lo storico Yuval Noah Harari, in una recente riflessione sul Financial Times, spiega che nella storia questa è la regola e non l’eccezione. Ad esempio in Israele una serie di misure “temporanee” adottate a valle della dichiarazione dello stato di emergenza durante la Guerra di Indipendenza (1948) sono state definitivamente abolite solo nel 2011. Come ha affermato Benjamin Franklin nel 1755, «chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Siamo dunque di fronte a una sorta di dilemma di Sophie (chi non si ricorda la “Scelta di Sophie”), dove ciascuna delle due posizioni possibili – libertà di movimento o monitoraggio della mobilità – ha implicazioni drammatiche. Ma ciò che è importante è innanzitutto la consapevolezza delle implicazioni della scelta, per non abbassare mai la guardia.