Fare impresa onestanonostante le leggi assurde

«Non si può imporre la legalità per legge», dice Alfredo Robledo, e ti fissa con uno sguardo dei suoi, penetrante, concentrato, di quelli che quando aveva una toga sulle spalle potevano far tremare. «Fare impresa con successo rispettando le leggi si può, eccome, anche in settori molto condizionati dagli appalti pubblici. Ma non per merito delle leggi. Anzi: nonostante molte leggi. Pessime per eccesso di minuzia e mancanza di pragmatismo». Il procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Milano – autore di decine di inchieste celeberrime, tra cui quella che ha portato alla condanna definitiva per frode fiscale di Silvio Berlusconi – ha lasciato la magistratura un anno fa. Oggi presiede la Sangalli di Monza, una bella azienda che fornisce servizi di pulizia, vive essenzialmente di appalti pubblici e, chiedendogli di prendere la presidenza, ha voluto voltare pagina rispetto a un passato non privo di inciampi ed ha conseguito il rating di legalità istituito dall’Anac e dall’Autorità Antitrust. Robledo, uscito tra mille polemiche da una categoria castale, tanto essenziale per la vita del Paese quanto contaminata soprattutto negli ultimi anni da ombre e cadute, sta vivendo una seconda vita. Il coraggio di denunciare formalmente la condotta a suo avviso scorretta del capo della Procura Bruti Liberati davanti al Csm, finita in una sorta di verdetto di pareggio dallo sgradevole tanfo di insabbiamento, lo ha definitivamente marchiato come un apostata, un eretico. E dopo un po’ di mesi di “altro incarico” ha ritenuto di scegliere un modo diverso per difendere la legalità: dall’interno di una grande azienda. «Un modo diverso ma coerente con il primo, però», precisa: «Sono entrato in questo nuovo lavoro con tutta la mia formazione. Non sono cambiato rispetto ai miei valori di riferimento. E quindi non ho sviluppato una concezione astratta della legalità».

Il concetto di legalità viene declinato confusamente con una proliferazione di norme e strutture inutili e quindi dannose

Ci spieghi meglio. Cos’è che non va nelle leggi che regolano il rapporto tra Stato e imprese?

Legiferare in maniera minuziosa e ipercorrettiva è sempre stato un modo di fare pessimo. Norme come l’attuale codice degli appalti sono negative. La legge non chiara si presta a mille interpretazioni manipolative. Dev’essere invece lineare e semplice. Per quello il codice napoleonico è durato tanto. Per esempio applicare la 231 in concreto è complicatissimo. Alla Sangalli ho trovato metodi, che sto cambiando, kafkiani: per parlare con un funzionario della pubblica amministrazione bisognava andarci in due, poi scrivere una relazione, che deve passare per l’ufficio legale che deve archiviarla protocollandola, comunicarla al consiglio, e via così con infinite adempimenti burocratici che non eliminano di per sé minimamente la possibilità di delinquere.

Quindi anche lei critica il codice degli appalti?

Ripeto: è scritto male, prevede procedure farraginose, di fatto inapplicabili, che conducono molti appalti a nessun termine. Va semplificato, assolutamente.

E la Consip? Funzionano le gare telematiche?

Se si riuscissero a evitare le intrusioni corruttive sarebbero determinanti. Ma quando queste intrusioni prevalgono, cancellano qualsiasi risparmio. 

E l’Antimafia?

Così com’è non serve più. Era stata fatta su misura di Falcone e con lui e solo con lui poteva funzionare. E per di più il correntismo l’ha infiltrata: come dimostrano le recenti nomine poi revocate dai tar piuttosto che alcune intercettazioni telefoniche. 

Parole pesanti…

Veda, a volte alla gente comune viene da chiedersi come possa pretendere legalità dai cittadini uno Stato che non ha indagato su troppi dossier gravissimi, che ha lasciato correre stragi e mafie. Le istituzioni, la lotta alla corruzione la vogliono fare davvero? Sembra che si sia creata una tale compenetrazione psicologica, nel Paese, tra corrotti e vittime della corruzione, che rende impossibile uscire dal loop. I più dicono: proprio qui, proprio da me vuoi cominciare a combattere la corruzione? Perché non cominci da quell’altro? La mia risposta è che il cittadino deve essere onesto per rispetto di se stesso. 

Ma nella dimensione dell’impresa, e in un quadro del genere, come si può fare business restando nella legalità?

Quello che serve è selezionare e qualificare le persone, creando in azienda uno spirito di squadra di cui i capi siano esempio. La legalità dev’essere una scelta profonda e collettiva. è l’aria che respirano le persone perbene. In Sangalli abbiamo 1100 dipendenti ed ho cercato di creare un clima in cui ciascuno sa che si può fidare degli altri. Se dai senso di dignità al tuo lavoro, isoli i comportamenti non onesti. Rispetto alle persone della mia azienda, del centro direzionale di Monza, sono sicuro che il modello 231 è superfluo. Quando tu dipendente vedi che la dirigenza è corretta e ti è vicina nell’impegno di esserlo, l’ambiente si sanifica, spontaneamente.

E quindi la 231 che fa, la disapplica?

Ci mancherebbe! No: la stiamo implementando ma chiarendone il senso per focalizzare al massimo l’applicazione delle sue norme all’interno senza creare né problemi di rallentamento delle procedure né di interpretazione. 

E le mele marce?

Possono esserci, ma se si lavora bene dopo un po’ si eliminano da sole. Anche perché la mela marcia non è mai isolata, prospera solo se trova attorno a sé il giusto…riferimento colturale…

E’ favorevole al cosiddetto whistleblowing, la spiata legalista in azienda contro gli scorretti?

Sì: in Sangalli l’abbiamo introdotta, chi vuol denunciare un comportamento illecito ha il diritto di farlo saltando management e consigli d’amministrazione e rivolgendosi direttamente all’organismo di vigilanza.

Che poteri ha tenuto per sé, come presidente, per presidiare meglio l’etica d’impresa?

Quello di nominare l’audit, l’organismo di vigilanza e il collegio sindacale. Ma poi puntando tutto sulla prevenzione. Ci vuole la giusta struttura di controllo, ma i guai si prevengono nella gestione.

Resta il fatto che il nostro non è un Paese per onesti, le pare?

No, no: niente alibi. è vero che può essere più faticoso essere onesti che disonesti, però alla lunga paga. Il guaio è che spesso i rimedi apportati dal legislatore sono stati illusori. Come nel caso dell’Anac. Mi spiego: la Francia è un  Paese che ha un livello di corruzione significativo, ma ha anche una tradizione autorevole e rigorosa nella pubblica amministrazione: per cui, nonostante i corrotti, il sistema funziona. Ma la Francia, come la Gran Bretagna, ha all’attivo una storia nazionale significativa. Da noi la storia è regionale, cittadina, e la burucrazia è soffocante.

Perchè critica l’Anac?

Perché ha subito un’enorme distorsione della sua funzionalità. Rivolgersi all’Anac si risolve troppo spesso nel blocco totale delle operazioni. Ma anche l’antimafia si risolve spesso in discriminazioni ingiuste. Un’interdittiva prudenziale e magari infondata, destinata a rivelarsi tale in pochi mesi, basta tuttavia a tagliar fuori un’azienda da un appalto, costringerla a tagliare posti di lavoro e ridimensionarsi, salvo poi chiederle scusa a danni fatti e ormai irreparabili. Un soffio di vento manda tutto all’aria.

E la legge spazzacorrotti?

Dice che se una volta hai sbagliato devi andare in galera senza se e senza ma. Sono tagliate fuori. Ma se uno paga col carcere e risarcisce, e naturalmente ristruttura l’azienda secondo spirito di legalità, dovrebbe essere riabilitato. Altrimenti le aziende muoiono. Io sostengo che lo Stato dev’essere severo e attento, ma deve sostenere le imprese corrette. Invece il concetto di legalità viene declinato confusamente, con una profilerazione di norme e strutture inutili, e quindi dannose… 

E lo Stato ha una brutta reputazione…

Sì: non viene percepito come uno Stato legale. Lo si vede nel penale, nelle ambiguità dell’antimafia, in 1000 manifestazioni di ambiguità e di inefficienza. Ma quando dissemini nelle istituzioni prassi poco chiare… induci i cittadini alla sfiducia verso di esse. L’Italia vive una fase di confusione enorme sul fronte della legalità che è diventata un concetto evanescente. Non interiorizzato da nessuno. Quando il cittadino guarda allo Stato, dove dovrebbe vedere ovunque il culto della legalità, e se non lo trova, si smarrisce e si chiede se essere onesti abbia senso oppure no.

Tornando alla sua nuova vita: come le è capitata?

Un mio amico imprenditore, una persona seria che conosco da 20 anni, mi ha chiamato: “C’è un’azienda che vuole darsi un nuovo corso, la tua storia parla per te. Perché non vieni a guidarlo?”. 

Le piace questa nuova dimensione?

L’attività nel privato è veramente bella. Mi sento addosso la responsabilità motivante di garantire la serenità a 1100 famiglie. Mi sento utile alla gente normale, ai cittadini come mio padre… Non ho mai avuto rimpianti, sono uscito da un modo ormai lontano dalla vita reale, mentre questa cosa mi avvicina alla vita reale…

Però lo ammetta: è tosta. Essere onesti e imprenditori sta diventando quasi un ossimoro.

Insisto: no. Potrai dover pagare un prezzo: vincerai qualche gara in meno, ma non subirai intralci e battute d’arresto. Certo, la legalità costa, non puoi rinunciare a certi presidi, è sempre bene che ci siano. Ma alla lunga premia. L’azienda è la nostra identità, che comprende lo sforzo dell’essere onesti. L’identità costa, ma è tutto.