C’è il 46% delle medie imprese che prevede una crescita del fatturato nel periodo 2023-2025 – quando investe in digitale, green e formazione. C’è il 30% delle imprese metalmeccaniche, in aumento dal 28% dell’ultimo trimestre del 2022, che prevede incrementi di produzione a fronte del 17% che pronostica riduzioni. C’è il 38% delle imprese italiane che dichiara che la propria attività è più forte oggi rispetto a 12 mesi fa, contro una media europea del 27%. È l’Italia delle imprese che non si arrendono, che dimostrano di voler crescere nell’ultimo terzo dell’anno senza attendere ciò che appare lontano: il calo dei tassi, quello dell’inflazione, la fine della guerra e delle tensioni conseguenti sui mercati internazionali. Non si vuole qui negare ciò che appare evidente: dopo un ottimo primo trimestre, in cui siamo cresciuti dello 0,6% mentre la Francia si fermava al + 0,2% e la Germania calava dello 0,3%, si è cominciata a sentire la frenata che ci ha fatto arretrare dello 0,3% nel secondo trimestre. I segnali di indebolimento sono legati agli impatti dell’inflazione e all’aumento dei tassi di interesse da parte della Bce: nelle pagine seguenti trovate la puntuale analisi realizzata per Economy dal direttore del Centro Studi Confindustria Alessandro Fontana. L’aumento dei tassi, in particolare, sta avendo impatti negativi sulla dinamica degli investimenti, complice l’ulteriore riduzione del credito bancario.

Eppure il tasso di disoccupazione continua a scendere: a giugno era al 7,4%, ormai vicino a quello fisiologico del 5%. E soprattutto l’export continua a macinare record: dopo i 624 miliardi del 2022, anche i primi 5 mesi dell’anno hanno segnato una crescita del 4,8%, certificata da Ice e Istat. Per questo è ancora più importante che dal 27 luglio sia operativo il Fondo 394, strumento gestito da Simest in convenzione con il ministero degli Affari Esteri per finanziare gli investimenti per la crescita estera delle imprese italiane. Il fondo ha una dotazione finalmente all’altezza degli obiettivi: 4 miliardi di euro, dedicati in prevalenza alle Pmi. Nell’intervista in questo numero di Economy, Gianemilio Osculati, presidente di Osculati & Partners, già ad di Deutsche Bank e presidente di McKinsey, lo definisce «un passo colossale». Tanto più che accanto alle quattro linee di intervento già esistenti ma rinnovate per andare incontro alle esigenze delle imprese (inserimento mercati, e-commerce, fiere ed eventi, temporary manager), se ne sono aggiunte altre due: transizione digitale o ecologica, e certificazioni e consulenze. Come afferma Andrea Prete, presidente di Unioncamere, nell’intervista nelle pagine seguenti, l’export è una leva fondamentale che andrebbe ulteriormente incrementata accrescendo il numero delle imprese italiane sui mercati internazionali: ce ne sono circa 45mila che potrebbero fare il gran salto, e le Camere di commercio le stanno assistendo in tal senso. Insomma sul fronte export le potenzialità inespresse delle nostre Pmi, sostenute da una legge che per una volta è arrivata con i tempi e le dotazioni giusti, potrebbero riservare qualche sorpresa positiva all’andamento del Pil, ormai in larga parte dipendente proprio dalle esportazioni.

Ma c’è anche qualcosa che le Pmi, o meglio le piccole imprese, possono fare per crescere in questo ultimo terzo di 2023, senza aspettare Godot. Scegliere finalmente di perseguire una maggiore dimensione, magari a costo di perdere il controllo del 100% dell’azienda, e in tempi brevi. «La consapevolezza dell’esigenza della crescita dimensionale sta crescendo, e questa è una bella notizia» dice Federico Visentin, presidente di Cuoa Business School, «lo vediamo dai nostri master per imprenditori delle Pmi, che sono sold out. La consapevolezza che se si vuole cambiare modello di business, lavorare sui talenti, sulle risorse umane che sono la chiave centrale, si deve avere il tempo di ragionare sui temi formativi. Non si può fare se non ci sono le dimensioni adeguate, se non c’è il tempo di pensarci perché non c’è la struttura delle risorse umane. Se l’imprenditore deve seguire le vendite o anche scaricare il muletto alla fine della giornata, cosa che accade spesso». Visentin parla per conoscenza diretta, essendo anche presidente di Federmeccanica: «Il 90% delle imprese nostre associate ha meno di 10 persone! Anche se non rappresentano la maggior parte dei dipendenti, che si concentrano nelle imprese più grosse».

Il primo problema è quello dei tempi, che devono essere necessariamente stretti. «La crescita deve avvenire rapidamente proprio nel fare l’acquisizione» precisa il presidente di Cuoa Business School, «non ci si può permettere di innescare un processo di cui si vedono i risultati dopo 4-5 anni, si deve reagire velocemente. La crescita per acquisizioni permette di acquisire competenze da un’altra realtà: magari ci si rende conto di non essere capaci nella digitalizzazione, oppure di essere in un settore che non scarica a terra l’aumento dei costi. Questo è crescere per cambiare modello di business e strutturarsi: se non lo si fa velocemente per acquisizioni ci si mette una vita».

Il secondo problema è quello del saperlo fare: non è mica così semplice fare un’acquisizione, oppure una fusione e via dicendo. «È una condizione necessaria: si deve essere in grado, si devono avere le capacità, e quindi le competenze per farlo: il che rimanda al mondo della formazione, specie dell’alta formazione, che si fa al Cuoa ma non solo» mette in evidenza Visentin. «Questa è una chiave sostanziale: se lavoriamo solo sulla consapevolezza, succede che l’imprenditore sa di dover crescere ma non sa come farlo, e allora vende: è proprio quello che sta succedendo». Certo le vendite non sono determinate solo dall’incapacità dell’imprenditore di guidare il processo di m&a. «C’è tanto risparmio in giro, sono cresciuti i private equity» osserva il presidente di Cuoa Business School, «tante aziende si sono viste finalmente liquidare patrimoni che prima rimanevano congelati nell’impresa. Un segno del valore di queste piccole realtà imprenditoriali. Ma questo è il pericolo, rischiamo di farle vendere tutte le nostre imprese. Dobbiamo lavorare sulla formazione, sulla capacità di fare processi di m&a».

Il terzo problema è un retaggio culturale italiano. «Il fatto di voler sempre gestire in prima persona, senza nessuna apertura del capitale ad altri» spiega Visentin, «se si acquisisce lo si fa solamente al 100%. Cosa diversa è rientrare in un processo che vede crescere per esempio entrambe le compagini che si mettono assieme: questo significa apertura del capitale. Ma qui c’è l’ostacolo del retaggio culturale: a casa mia comando io! Questo è un limite da superare».

Crescita qui e ora fa rima, oltre che con aumento delle dimensioni d’impresa, con raggruppamento. «In questo momento le aziende che cercano di effettuare investimenti significativi stanno cercando di raggrupparsi in progetti comuni per condividere i costi» dice Ernesto Lanzillo, Deloitte Private Leader, «combinazioni di tipo commerciale come consorzi, accordi di rete, business combination, ma soprattutto raggruppamenti di filiera. Grandi e medie imprese infatti stanno entrando in un’ottica di gestione del parco fornitori integrata». Un processo che viene accelerato dalle leggi europee sempre più stringenti sulla sostenibilità. «La normativa sulla Corporate social responsibility, in evoluzione con la direttiva Csrd, obbliga le grandi aziende e in generale i capi filiera a rendicontare sulle capacità dei fornitori di perseguire i medesimi obiettivi Esg» spiega Lanzillo, «quindi si stanno automaticamente generando dei raggruppamenti tra fornitori di uno stesso grande cliente, per far sì che quell’ecosistema produttivo abbia un’evoluzione connessa allo sviluppo della Csr e dei progetti green». Anche le norme specifiche sull’impronta carbonica vanno nella stessa direzione. «A proposito di emissioni, secondo il protocollo Ghg lo Scope 1 sono le emissioni dirette della grande azienda, lo Scope 2 quelle dell’azienda e delle partecipate, lo Scope 3 quelle del gruppo con tutti i fornitori» precisa il Deloitte Private Leader, «questo concetto di catena del valore su cui si deve rendicontare l’Esg è già molto chiaro alle grandi aziende ma lo sta diventando anche alle medie, che entreranno in obbligo di rendicontazione dal 2025. Questo genererà una ricaduta sulle piccole imprese fornitrici delle grandi e anche delle medie, che contribuirà a creare quegli ecosistemi tra fornitori e azienda che aiutano a realizzare i grandi progetti».

Ma c’è anche un altro motivo molto laico per cui la sostenibilità ha un ruolo importante nella crescita delle imprese, anche a breve termine. «Le aziende vedono la sostenibilità come un modo per poter accedere più facilmente al mercato dei capitali e della finanza, e per accrescere la visibilità e la reputazione presso i clienti, potendo spuntare un prezzo più alto perché il prodotto è percepito di maggiore qualità» spiega Lanzillo. «Chi è Esg rated o ha comunque un approccio Esg compliant, con un’attenzione oltre che all’utilizzo di energia green al sociale e alla pulizia della governance, viene percepito dal sistema finanziario e dagli investitori come un soggetto di interesse. E tra i consumatori c’è sempre più attenzione ad aspetti quali la tracciabilità del prodotto, il mancato sfruttamento dei lavoratori, il riciclo e il fine vita dei prodotti, la capacità di tracciarne la qualità: elementi connessi alla sostenibilità che fanno vendere meglio, innalzando volumi e prezzi e quindi dando finanziamento alle imprese». Non c’è tempo da perdere, insomma, come conferma lo European Payment Report di Intrum (vedere il riquadro in alto): per non andare in rosso, si deve puntare sul verde.