Mario Draghi
MARIO DRAGHI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Possiamo dirlo? L’impressione è che non sia altro che l’ennesima puntata del cabaret della politica italiana – altro che il Bagaglino della tanto vituperata quanto rimpianta Prima Repubblica – l’ultima, ma solo in ordine di tempo, patetica messinscena d’una classe politica che alle idee e alla strategia politica ha sostituito i like, il cervello l’ha buttato da un pezzo all’ammasso e ormai non distingue il Parlamento da TikTok.

Movimento 5Stelle, quelli che dovevano…

E chiamatela pure comunicazione politica 2.0, provando (provateci!) a darle una mistificazione intellettuale, ma sempre una ciofeca resta. Non si spiegherebbe altrimenti la giravolta del partito – anzi, scusate il movimento o quel che diavolo è diventato – che più degli altri (per chi non lo avesse ancora capito si tratta dei 5Stelle, movimento politico noto per la sua coerenza e per l’immarcescibile ortodossia dei suoi leader, da Gigino ‘O Ministro’ Di Maio al signor Conte Giuseppi da Volturara Appula passando per Alessandro “Che” Di Battista) rappresenta la quintessenza dell’ormai definitiva traslazione dell’agone politico nella timeline di un social network, l’emblema dell’improvvisazione eretta a sistema di pensiero. Gli apostoli di Beppe Grillo, l’ex comico che se prima non faceva ridere adesso fa pure pena, quelli che “il Parlamento avrebbero dovuto aprirlo come una scatola di tonno” e alla fine “il tonno se lo sono mangiati con tutta la scatola”.

Quelli che avrebbero dovuto abolire la povertà con il Reddito di Cittadinanza e l’hanno dato in mano a furbetti, mafiosi e fancazzisti; quelli della soluzione “banchi a rotelle” per fermare l’emergenza pandemica nelle aule scolastiche; quelli del Superbonus che serviva a ridare fiato all’edilizia e ha finito per ingrassare le tasche di cialtroni e prenditori. Quelli che volevano fare la “Belt and Road” con Xi Jin Ping (governo Conte 1) e adesso sono diventati più atlantisti di Biden e Stoltenberg (vedi alla voce Di Maio). Quelli del “mai con la Lega!” che poi però hanno governato con i leghisti nel Conte 1; quelli che “mai con il Pd!” e poi ci hanno fatto il governo Conte bis rinnegando tutto quello che avevano fatto nel governo giallo-verde (vedi alla voce Conte). Quelli del “mai con Mario Draghi” che poi si sono messi a disposizione (ma per spirito di servizio eh!) dell’unità nazionale e dell’ex governatore dell’odiata Bce.

Quelli – infine – che hanno voluto tagliare 445 parlamentari per far risparmiare le casse dello Stato nella prossima legislatura ma che poi voterebbero persino Belzebù pur di non perdere i 15 mila euro netti/mese (ma in parte li rimborsano eh!) che le ultime elezioni gli garantiscono da qui a fine legislatura.

Cosa ci riserva il futuro, dopo Mario Draghi?

Insomma, questa banda di scappati di casa qui (o almeno il ramo “contiano” della sventurata famiglia, li riconoscete per la pochette a tre punte con il nulla attorno), ieri ha dato una spallata al governo Draghi uscendo compatta dall’Aula del Senato e rinunciando a votare la fiducia sul Decreto Aiuti che dovrebbe erogare 20 miliardi di aiuti per imprese e famiglie. E portando Supermario a una scelta obbligata: salire al Colle e rimettere (dopo 15 mesi di premierato) il mandato nelle mani del Presidente Mattarella, scrivendo che, “alla luce delle votazioni di oggi in Parlamento, la maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto il governo fin dalla sua creazione, non c’è più”. Dimissioni che in serata, come da copione, sono state respinte da Mattarella, con rinvio obbligato dell’esecutivo alle Camere per la fiducia. Bene. E adesso, che succede?

Prima di rispondere facciamo un passo indietro: qualche settimana fa il Movimento ha subito un sommovimento. Il buon Giggino Di Maio (quello che qualche anno fa, dopo la prima – di una lunga serie – batosta alle amministrative, con un bel gesto a favore di Instagram, s’era tolto la cravatta dimettendosi da capo politico dei 5Stelle ma guardandosi bene dal lasciare la poltrona da Ministro degli Esteri, alla cui assegnazione metà dei suoi predecessori nella storia repubblicana si è rivoltata nella tomba), il buon Giggino si diceva, consumando uno strappo che risale all’epoca del Conte I, con la scusa dell’atlantismo messo in discussione dai suoi sulla guerra in Ucraina, s’è sfilato facendosi subito il suo bel gruppo in Parlamento e – i rumors dicono con il sostegno d’Oltreoceano – presto anche un partito forse.

È la fine dei 5Stelle, è stato detto. La deflagrazione. L’Armageddon. Così al signor Conte Giuseppe da Volturara Appula – uno che nemmeno se si allineassero tutti i pianeti del Sistema Solare, riuscirebbe a sedersi di nuovo alla Presidenza del Consiglio e che pure a Grillo gli è scappato di definire “inadeguato” – cos’è rimasto da fare? Indovinate un po’? Aprire una crisi di governo e contare i suoi fedelissimi in Senato al voto di fiducia. La roulette stamattina ha detto numero 61, tanti sono stati i senatori grillini usciti dall’Aula e risultati astenuti dal voto alla fiducia al governo. Un numero che non basta a buttare giù l’esecutivo ma che è bastato a Draghi per raccogliere le sue cartelline e andare stizzito da Mattarella per restituire il badge da premier.

Più dell’onor potrà il vitalizio?

Dicevamo, che succede? Succede che i soliti ben informati raccontano di un Movimento in ebollizione, che sa d’averla fatta grossa ma che (in parte) si bea di aver fatto vedere i sorci verdi a quel cattivone di Supermario! E già si fregano le mani a contare i like sui social per questa bella impresa (peccato che quei like poi nelle urne non si trasformano mai in voti e basterebbe leggere i dati delle ultime amministrative per capirlo, ma forse pretendiamo troppo). Il punto è che domani mattina, quando la stragrande maggior parte di loro si sveglierà, si renderà conto – calcolatrice alla mano – che se si dovesse andare allo scioglimento delle Camere e al voto anticipato (tecnicamente a ottobre?) perderebbero circa 7-8 mesi di stipendio (l’equivalente di circa 120 mila euro).

Mesate a carico di noi contribuenti che, sempre per la maggior parte di loro, molto verosimilmente saranno le ultime che si vedranno accreditate, visto che grazie alla legge che loro stessi hanno voluto (faccina che ride) al prossimo giro torneranno al bar del paese dove nel 2018 hanno comprato il pacco di patatine dentro cui hanno trovato il biglietto del soggiorno-premio in Parlamento. Per cui, si dice, che smaltita la sbornia e presi i tanto agognati like su Facebook, potrebbero seriamente pensare di votarla la fiducia al governo Draghi e andare avanti con gli accrediti degli stipendi fin quando si potrà. Dicembre? Marzo, a scadenza naturale di legislatura? Tutto fa brodo.

“Resto ma voglio il Quirinale tra un anno”

A questo punto però in questa triste tristissima storia, entra in ballo un elemento imprevisto, il classico iato che cambia il corso della storia. E cioè che di tutta questa manfrina, che va avanti da mesi sottotraccia, (l’attuale) ex premier Mario Draghi, kantianamente parlando, si sia rotto (il cà). E non abbia nessuna intenzione di scendere più a patti con questi smidollati né con il resto di quella specie di Armata Brancaleone della maggioranza che lo sostiene (sosteneva?). E dunque mercoledì prossimo, quando su mandato di Mattarella andrà in Parlamento a riferire per ottenere la fiducia, si potrebbe consumare la resa dei conti finale. Perché non ci sarà nessuna mediazione da qui al 20 luglio.

A meno che, ma qui entriamo nel campo della fantapolitica, Mario Draghi non avrà posto sul tavolo di Mattarella una “conditio sine qua non” per andare avanti anche a costo di farsi venire un fegato grosso così: la prossima Presidenza della Repubblica, che peraltro non ha mai digerito d’aver perso a gennaio. Il vecchio Sergione, del resto, prima o poi in pensione ci dovrà andare. E chissà che il tandem Mattarella-Draghi non tiri fuori il coniglio dal cilindro per una staffetta che consenta di continuare a firmare quel patto fidejussore con l’Europa stipulato a febbraio di un anno fa.