La crisi innescata dalla pandemia ha colpito con particolare violenza soprattutto i giovani e le donne, generando complessità aggiuntiva per i già affaticati sistemi di governance pubblica. A Carbis Bay il G7 ha riconosciuto “l’impatto devastante e sproporzionato del COVID-19 su donne e ragazze, che rischia di invertire i guadagni duramente conquistati, in particolare per quanto riguarda la violenza di genere, la salute sessuale e riproduttiva e i diritti, l’istruzione e il lavoro”.
La reazione delle istituzioni a dati così allarmanti non si è fatta attendere e già a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia si è cominciato a ragionare in termini spesso innovativi per ridurre il divario tra uomini e donne. Nel marzo 2020 la Commissione europea ha disegnato la strategia quinquennale per la parità di genere e lo sviluppo sostenibile e il 4 marzo 2021 ha presentato la direttiva per la parità di retribuzione tra uomini e donne e per la trasparenza delle retribuzioni.
In questo campo affrontare una decisa virata di rotta non è più un’opzione, anche perché ormai la parità tra i sessi possiede un’evidente concretezza economica, oltre che giuridica e di civiltà. La ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro limita in modo importante la crescita e lo sviluppo economico e sociale; vi è ampio consenso nel ritenere che se la partecipazione femminile raggiungesse i livelli di quella maschile ne conseguirebbe una notevole espansione del prodotto interno lordo; l’EIGE stima che un’UE più equa tra i sessi aumenterebbe il PIL pro capite del 6,1% – 9,6%, pari a 1,95-3,15 trilioni di euro, e creerebbe 10,5 milioni di posti di lavoro aggiuntivi.
Mai come in questa fase storica è chiara a tutti la necessità di investire sulle persone, le loro competenze e abilità umane e professionali, a prescindere dall’età o dal genere. Anche all’interno della società civile e degli organismi di rappresentanza il divario tra donne e uomini appare sempre meno comprensibile e tollerabile.
Molti segnali indicano che il futuro post-pandemico potrebbe essere caratterizzato dalla valorizzazione delle competenze e dal contrasto alle disuguaglianze di genere, oltre che da nuovi paradigmi di sostenibilità. L’uguaglianza di genere, in altre parole, non è più solo una “questione femminile”, ma tocca da vicino tutti noi e il tipo di società e di economia che immaginiamo per il futuro.
Un tema che solo di recente si è iniziato ad affrontare è quello della leadership al femminile. Le difficoltà che le donne incontrano nel raggiungere anche le posizioni di leadership sono così diffuse in tutti i settori della vita sociale ed economica che sembra essere un modello profondamente radicato anche nelle società considerate “più avanzate”, come quelle del Nord Europa.
Una delle cause potrebbe essere che negli ultimi anni l’attenzione politica e della pubblica opinione si sia concentrata soprattutto sulla sottorappresentazione femminile in campo politico, mentre l’esistenza di asimmetrie di genere nelle posizioni apicali aziendali, nella scienza e nella tecnologia è stata sottovalutata o addirittura ignorata. D’altra parte, affari, scienza e tecnologia sono considerate aree “razionali” e, in quanto tali, ritenute naturale dominio degli uomini. E i dati lo dimostrano chiaramente: in gran parte dei paesi industrializzati le donne occupano solo una piccola quota delle posizioni manageriali e scientifiche, nonostante il fatto che abbiano superato gli uomini nei corsi universitari.
Affrontare una decisa virata di rotta non è più un’opzione: la parità possiede concretezza economica, giuridica e di civiltà
Il nostro paese non fa eccezione, anzi, primeggia tra quelli che mostrano dati suscettibili di ampi margini di miglioramento. L’INPS (2019) indica che in Italia le posizioni manageriali sono occupate da 605mila lavoratori e lavoratrici, di queste solo 168mila sono affidate a donne (28%). Tale quota si riduce significativamente se si considerano le posizioni lavorative regolamentate da un contratto da “dirigente”; in questo caso, su circa 123mila dirigenti italiani, le donne sono poco più di 22mila (18%) e negli ultimi dieci anni questa percentuale è cresciuta, in media, di soli 0,3 punti percentuali per anno. In più, nel nostro Paese la professione con le maggiori differenze di retribuzione di genere è proprio quella dei manager.
Tuttavia, l’analisi effettuata dall’Osservatorio 4Manager sui Rapporti periodici sulla situazione del personale maschile e femminile, relativi al biennio 2018/2019, evidenziano un lieve incremento della presenza femminile all’interno delle imprese di medie e grandi dimensioni: le donne dirigenti aumentano del 3,7%, contro una diminuzione di dirigenti uomini (-1,3%). Questo andamento riguarda anche la componente femminile dei Quadri.
Al fine di scongiurare un possibile “ritorno al passato” e preparare un futuro migliore, l’Osservatorio 4Manager invita a porre l’attenzione su fatti evolutivi di natura demografica, sociologica e organizzativa. Dal punto di vista demografico un’occasione da sfruttare per rivedere le tradizionali pipeline di leadership alla luce dell’uguaglianza di genere e generazionale è che la pandemia è arrivata a ridosso di massicci pensionamenti dei baby boomer e migliaia di posizioni dirigenziali si libereranno a breve. Iniziare fin da subito a realizzare programmi di coaching, sponsorizzazione dei talenti e formazione alla leadership, renderà le imprese più agili, resilienti, veloci e inclusive, anche verso le donne manager.
Un altro dato sul quale l’Osservatorio invita alla riflessione è che i riferimenti utilizzati fino ad oggi per affrontare il tema della parità di genere (flessibilità, orari, permessi, disponibilità di asili, trasporti, welfare aziendale, malattie, produttività, ecc.) necessitano di essere ripensati. Infatti, l’emergenza sanitaria da Covid-19 sta svolgendo la funzione di un potente “acceleratore di processi”, portando le imprese ad affrontare trasformazioni, spesso radicali, che coinvolgono i modelli di business, i processi d’innovazione e la transizione verso modelli più sostenibili di produzione. Nell’immediato, il fenomeno oggi più macroscopico, quello del “lavoro da casa”, ha di colpo reso obsoleti i modelli organizzativi novecenteschi e, di conseguenza, ha modificato i tradizionali fattori sui quali si faceva leva per mitigare il gender gap. Lo Smart Working, infatti, sposta l’attenzione dell’organizzazione dalle “persone” all’efficienza, dalle ore lavorate al raggiungimento degli obiettivi, mettendo in risalto i talenti, le competenze lavorative e la capacità creativa dei manager. È una sorta di grande “livella” che limita gli stereotipi, anche quelli di genere, e facilita l’acquisizione di talenti e competenze manageriali superando i tradizionali meccanismi culturali che intervengono nei processi di selezione, progressione di carriera e determinazione della remunerazione.
Le imprese, inoltre, dovranno affrontare scelte realmente dirompenti se vorranno abbracciare i nuovi paradigmi di sostenibilità e queste scelte dovranno essere guidate dall’obiettivo di rendere più innovativa, veloce, reattiva e resiliente l’azienda, abbattendo tutti gli ostacoli alla produttività, alla qualità del prodotto e alla creatività. Tutte azioni, queste, che possono trarre beneficio sia da un maggior coinvolgimento delle donne nei processi di riorganizzazione, sia dalla valorizzazione dei talenti manageriali femminili ancora inespressi, sia dalla rottura di tutti quei meccanismi patologici che generano “soffitti di vetro” e “pavimenti appiccicosi”.
La chair del B20, Emma Marcegaglia:
La piena valorizzazione del ruolo della donna nella società, oltre ad essere un valore etico imprescindibile, rappresenta un potente driver di crescita e di inclusione. Il quadro che illustra la performance occupazionale femminile e la presenza delle donne nelle posizioni di leadership è ancora deludente. Questo è il momento di agire con una visione complessiva, facendo leva sui fattori che possono permettere di vedere realizzati a pieno i talenti femminili. Il sistema delle imprese è pronto ad affrontare questa sfida, con un impegno confermato anche dalla Special Initiative on Women Empowerment nell’ambito del B20. Occorre un impegno comune di Istituzioni e attori sociali per contrastare gli stereotipi e superare le barriere culturali che scoraggiano le giovani ad intraprendere programmi di istruzione e formazione nelle materie tecnico-scientifiche, orientandole di più verso i settori innovativi ad alto potenziale di crescita. Altrettanto necessario è incoraggiare e sostenere, soprattutto attraverso percorsi di mentoring e tutorship, l’ambizione delle donne a ricoprire ruoli di leadership. Centrali restano poi le infrastrutture sociali, a partire dalla disponibilità e qualità dei servizi di assistenza e cura per l’infanzia e la non autosufficienza, per permettere alle donne di conciliare impegni professionali e famigliari e di meglio bilanciarli con gli uomini. Questo è il percorso di women empowerment che ci consentirà di affrontare la sfida della crescita sostenibile, realizzando una società più equa, dinamica ed inclusiva.
Il Presidente di Federmanager e 4.Manager, Stefano Cuzzilla:
«Quando parliamo di parità di genere dobbiamo porci in una prospettiva di sistema: più donne al lavoro, specie in posizioni apicali, significa favorire un rilancio sostenibile e duraturo per l’economia e per la società nel suo complesso. Ed è un bene che questo tema oggi sia all’attenzione del G20, perché si tratta di una sfida globale in cui gli Stati hanno un ruolo fondamentale. Per abbattere le evidenti disuguaglianze di trattamento, di retribuzione, di carriera – ha aggiunto Cuzzilla – sono necessarie azioni concrete. Il nostro impegno si concentra proprio nel promuovere una diversa cultura d’impresa, capace di valorizzare la leadership al femminile quale fattore indispensabile per assicurare un futuro di maggiore benessere e ricchezza per tutti».