Se la fusione tra Autogrill e Dufry si rivelerà un bene per l’economia italiana lo dirà soltanto il futuro. Al momento, l’Offerta pubblica di acquisto e scambio mediante la quale il colosso svizzero dei duty free e degli autogrill Dufry acquisterà dai Benetton Autogrill Spa in un’operazione con la quale, però, la famiglia italiana si ritroverà ad essere primo azionista della società post-fusione, appare interessante sotto il profilo finanziario per i soci che vorranno aderirvi, e questo è già tanto.
Con Dufry un player da oltre 12 miliardi di ricavi
E’ di questa notte il comunicato con cui l’operazione viene formalizzata, dopo essere stata peraltro già ampiamente scontata dal mercato. La presidenza onoraria andrà ad Alessandro Benetton, e mentre il pur bravissimo Gianmario Tondato De Ruos, che da quasi vent’anni guidava con mano ferma ed efficiente Autogrill viene mandato a gestire le attività nordamericane (importantissime, ma pur sempre periferiche), le cariche operative rimangono ai manager che già guidavano Dufry, ossia Juan Carlos Torres e Xavier Rossinyol che saranno rispettivamente Presidente Esecutivo e CEO del nuovo Gruppo.
A completamento dell’operazione nascerà – recita il comunicato – attraverso l’unione di due dei principali operatori dei rispettivi settori, un player globale da oltre 12 miliardi di ricavi ed un Ebitda di circa 1,3 miliardi (dati 2019 pre- pandemia), con l’obiettivo di sviluppare una nuova offerta di prodotti e servizi e migliorare, innovandola, la customer experience di chi viaggia.
Autogrill azioni e governance
Per effetto dell’operazione è previsto al closing il lancio da parte di Dufry di un’offerta pubblica obbligatoria rivolta al mercato per lo scambio di azioni Autogrill in azioni Dufry o, in alternativa, per cassa. Edizione, che controlla oggi il 50,3% di Autogrill, diventerà il maggior azionista del nuovo Gruppo, di cui deterrà al termine dell’operazione una quota indicativamente compresa tra circa il 25% e il 20% a seconda del livello di adesione all’Opas.
Alessandro Benetton entrerà nel Consiglio di Amministrazione del nuovo Gruppo in qualità di Presidente Onorario con il compito di promuovere e coordinare le relazioni istituzionali con i principali azionisti del nuovo Gruppo, una specie di “investor relator”: e si consideri il rango dei soci istituzionali di Dufry, fondi come Advent, Qatar Holding , il gigante dell’ecommerce Alibaba Group, la famiglia Rupert, Franklin Mutual, Fidelity ed altri.
Li si mette d’accordo soltanto facendo crescere il valore borsistico dei loro asset e pagando profumati dividendi. E’ l’unica ragione per la quale sono lì. Enrico Laghi e Paolo Roverato (rispettivamente Amministratore Delegato di Edizione e Presidente di Autogrill) entreranno nel CdA del nuovo Gruppo con la carica di Vicepresidenti.
Cosa accadrà a lungo termine?
Come leggere – dal punto di vista della tutela degli interessi che il Paese Italia ha nella vita delle sue grandi e grandissime aziende – l’operazione appena annunciata? Bene, come si diceva, per gli interessi finanziari dei soci, anche quelli piccoli.
Va invece sospeso il giudizio sullo scenario a medio-lungo termine, perché è ovvio che il comando del gruppo viene spersonalizzato, la volontà della famiglia Benetton, che pure resta primo azionista, si stemperà in un contesto istituzionale dove non c’è più, in capo ai trevigiani, alcun peso imprenditoriale: tutti soci istituzionali, tutti alla pari seduti allo stesso tavolo a parlare di interessi finanziari.
Un film già visto. Alcuni grandi imprenditori del ‘900, come gli Agnelli, e più recentemente tante altre famiglie impreditoriali – dai Pesenti ai Loro Piana, dai Lucchini ai Merloni – hanno passato la mano a gruppi internazionali nei quali hanno avuto un po’ di voce in capitolo ma solo un po’ e solo per poco, di fatto hanno volontariamente dismesso le vesti impegnative di chi gestisce in proprio un business e adottato quelle dei rentier, che vivono di rendita.
Non c’è niente di male, perché al loro posto migliaia di nuovi imprenditori italiani si sono fatti avanti, ma da piccoli diventati medi, e non da grandi desiderosi di crescere ancor di più.
Alessandro Benetton, uomo di visione
Speriamo che ai Benetton vada meglio: le premesse ci sono, Alessandro è un uomo per bene e ha visione, assomiglia in questo al padre Luciano. Non è un manager ma non gli è mai difettato il fiuto imprenditoriale e non ha mai condiviso del tutto la lunga fase della gestione Gilberto-Mion. Il vero scempio, indimenticabile e incancellabile, resta quello che lo Stato – governi Prodi-D’Alema, direttore generale del Tesoro Draghi – ha reso possibile ai Benetton su Autostrade, dove la famiglia investendo una bazzecola, a conti fatti 100 mila euro, si sono portati a casa 21 miliardi e dove la gestione, non addebitabile a loro ma pur sempre da loro espressa, ha talmente e dichiaratamente trascurato la manutenzione delle strutture da aver reso possibile, se non determinato, la tragedia del ponte Morandi.
E’ da misurare peraltro anche il futuro di Luxottica, senza fondatore: resisterà la frastagliata ma incastratissima tribù degli eredi Del Vecchio, ad esprimere il comando del colosso Essilux o cederà al peso istituzionale dei secondi soci, espressione dell’estabilishment francese? Per non parlare degli Agnelli-Elkann, ormai distanti e distratti primi azionisti col 16% di un colosso, Stellantis, guidato da un management straniero scelto da soci stranieri che pian piano e senza strepiti ha già molto ridimensionato il peso dell’Italia – come produzioni e occupazione – nel suo consolidato.
Insomma, si conferma che il nostro non è un Paese per grandi gruppi.