di Arianna Visentini*
Se pensate che la certificazione della parità di genere sia solo make-up da sfoggiare per fare bella figura, vi sbagliate di grosso. Purtroppo però comprenderne a fondo le potenzialità si sta dimostrando tutt’altro che banale in un tessuto economico e sociale come quello italiano: il nostro management, soprattutto per quanto riguarda le Pmi, non nasconde un certo scetticismo sull’importanza di politiche D&I (diversity and inclusion) nelle organizzazioni.
Ma certificazione, D&I – e in generale le azioni in ottica di miglioramento del benessere delle persone, non devono limitarsi a essere strumenti in mano al management “umanista” che ne condivide i presupposti etici. Non devono nemmeno entrare in un circolo di autoreferenzialità tutta al femminile, oppure rimanere appannaggio di multinazionali illuminate. È necessario invece comprendere che investire sul benessere delle persone è qualcosa che ha un impatto concreto sulla produttività e sul business delle aziende.
Bisogna ammettere che un’accelerazione in questo senso è avvenuta negli ultimi anni, grazie all’adozione di welfare e flexible benefit. Il benessere è entrato a pieno titolo nella dialettica economica in ottica gestionale e amministrativa: ci si è accorti che il welfare fa concretamente risparmiare le imprese, riducendo il costo del lavoro.
Ora invece ci pensa l’Europa a forzare la mano: l’evoluzione normativa e degli standard nell’ambito della rendicontazione Esg si concretizzerà ben presto in uno tsunami che sconvolgerà a fondo i processi aziendali. La sostenibilità – di questo si tratta – non è questione solo etica o morale, ma si sta traducendo in gate e prerequisiti di accesso al capitale o di riduzione del suo costo, diventando di fatto una questione di risk management.
Il mercato in questi ultimi anni ce l’ha confermato: gli investitori premiano l’attenzione delle imprese ai parametri Esg, anche perché una società “sostenibile” è a rigor di logica un buon investimento: più resiliente a situazioni emergenziali, è in grado di rispettare al meglio normative, è proattiva in termini di innovazione sia a livello di operations e di sicurezza, sia per quanto riguarda il rapporto con con l’esterno in termini di trasparenza.
Ecco perché le classiche categorie di rischio non bastano più: come suggerito dal World Economic Forum (Global Risks Perception Survey – Grps, 2022), servono nuove categorie di rischio che tengano maggiormente conto del benessere e delle tematiche sociali. Lo chiede il mercato e, last but not least, la normativa.
L’Europa in questo senso si muove chiaramente e non lascia spazio a dubbi. Con la Corporate Sustainability Reporting Directive ci sta dicendo che la sostenibilità non è più semplicemente uno spunto di riflessione, ma una vera e propria stella polare all’interno della gestione strategica delle imprese: una questione culturale.
A ben guardare dunque, il framework europeo sulla sostenibilità avrà ripercussioni in ottica di accesso al credito, di risk management (basti pensare al dramma in termini di turnover che stanno vivendo molte realtà) e infine di competitività sul mercato, perché essere competitivi significa fidelizzare le persone, essere attrattivi per i talenti e aver lavorato sulla propria brand reputation, indispensabile ormai per vincere sulla concorrenza.
Ecco qual è il contesto dove inserire la Certificazione di genere: è l’occasione per avere una road map all’interno di una strategia non più procrastinabile di people management. Aziende, imprenditori e imprenditrici, manager: non c’è più tempo per un altro giro di tavolo. Siamo giunti al vedo, tocca rilanciare! L’Europa chiederà il conto su inclusione e valorizzazione della diversità, parità di genere, welfare, flessibilità: si tratterà di una rendicontazione dove non sarà sufficiente annunciare di voler cambiare in meglio, ma bisognerà già essere cambiati.
*Ceo di Variazioni Srl