«Capitale corrotta = nazione infetta» fu, nel ’55, il titolo di un’inchiesta di coverstory del settimanale L’Espresso, per la firma di Manlio Cancogni, che raccontando le malefatte dell’allora sindaco di Roma ne traeva spunto per dipingere con i colori del miglior giornalismo d’inchiesta la corruzione che serpeggiava già nel Paese.
Oggi il titolo dell’inchiesta sarebbe: “Toghe corrotte = nazione infetta”. Perché quella «modestia etica» deplorata dal Capo dello Stato a proposto dello scandalo Csm, quel «dilagante malcostume» di molti magistrati, così sconvolgente da traumatizzare gli italiani e lo stesso Mattarella, sono tra i sintomi più chiari dell’infezione morale che alligna nel Paese.
«Chi sono io per giudicare?», disse Papa Francesco, poco dopo l’inizio del suo pontificato, sconvolgendo i benpensanti perché volle in quel modo distinguere la difesa della morale cattolica dallo stigma che, sbagliando, alcuni cattolici ne fanno derivare contro chi quelle regole non vuole o non riesce ad applicare. Ecco: quell’interrogativo (“chi sono io…”) ricorda a tutti quanto la funzione del giudice debba essere elevata e eticamente credibile. Ma così in Italia non è più, da troppo tempo, nonostante la serietà e in certi casi l’eroismo di alcuni giudici. Non lo è, soprattutto, perché al di là delle abiezioni personali, l’apparato giudiziario soffre di una monumentale inefficienza, agli ultimi posti in tutte le classifiche internazionali, cui non solo ci siamo assuefatti, ma spesso ci adeguiamo approfittandone.
Questa magistratura castale, lobbistica, faziosa e autoriferita non può essere riformata: la politica potrebbe farlo, costituzionalmente, ma è corrotta, sia a livello centrale che locale, e dunque ricattabile; ed è divisa. Non converge mai su alcuna linea sensata che sia capace di ridurre l’arbitrio inefficiente di quella casta al ruolo – forte, indipendente ma circoscritto – che le aveva riservato la Costituzione.
Ogni volta che qualche forza politica ci prova (spesso quelle meno credibili, peraltro) ce n’è un’altra che si oppone per continuare a sfruttare speculativamente le storture del sistema e scambiare favori ergendosi a paladina di istituti nefasti come l’unicità delle carriere.
«Onestà, onestà!» è stato il grido puerilmente forcaiolo al quale i Grillini hanno conquistato il Palazzo, salvo dimostrare la propria stessa vulnerabilità alle occasioni di tradimento del mandato elettorale e morale.
Con una magistratura così inefficiente, come emendare gli altri corpi dello Stato? E d’altra parte, con una politica intrallazzona, lacerata dalle rivalità preconcette, offuscata dalla demeritocrazia (meno sai, più ti distingui) e attanagliata dalla gara sulle bugie acchiappavoti, come uscirne?
C’è un solo modo: con l’Europa. Ma non per scelta: per forza. Gli aiuti per il dopo-Covid arriveranno, ma non saranno gratis. Comporteranno riforme, che non sapremo fare. Passeranno dal presidio dei saldi (“se non sfori oltre il 3%, fai quel che vuoi”) al presidio dei contenuti (“fai riforme serie, e dimostrami che lo sono”). Ciò comporterà cessioni ulteriori di sovranità, sull’altare dell’indispensabile competitività dell’economia nazionale. Per questo fanno bene gli imprenditori – che pure di pecche ne hanno molte – a contrapporsi con una grinta anche più antagonista che in passato alla deriva di questa politica inconcludente che resta a sua volta in balìa di una magistratura inefficiente.
Ci vuole più Europa, per uscirne, e più impresa. Perché se non altro gli imprenditori, pur se manchevoli, quando sbagliano pagano sul mercato. E sono obbligati, quasi tutti, alla competitività. Quell’obbligo che un popolo di elettori sprovveduti ha fatto dimenticare ai suoi rappresentanti politici.
Ora siamo a posto, il grillo di governo è ritornato quello di lotta
Perché scegliere il 22 giugno un argomento cui dedicare un corsivo, sapendo che i lettori lo leggeranno in edicola quindici giorni più tardi? Solo perché si è sicuri, ahinoi, che l’argomento sarà ancora drammaticamente attuale. E l’argomento è il nefasto influsso che Beppe Grillo continua ad esercitare sulla vita politica italiana, figlio di un’infodemia che fatalmente ne propaga il pensiero come un virus, qualunque insulsaggine dica.
Il fondatore del Movimento Cinquestelle – nato sulla promessa di un risanamento della politica e risoltosi in un’aggiunta di nuove negatività a quelle vecchie e non sanate – aveva riscosso a suo tempo un qualche successo criticando Telecom per le vicende di una privatizzazione oggettivamente sbagliatissima. Ora ha voluto, da vecchio mattatore, ripescare il tema, attaccando stavolta Open Fiber, uno degli ultimi grandi investimenti pubblici utili al Paese, e predicando di fatto la rinazionalizzazione del gruppo telefonico derivato dalla vecchia Sip.
Ora, senza entrare nel merito dell’epopea, giova ricordare che il Ministero dello Sviluppo Economico (e nel Conte 1 anche le Infrastrutture) sono stati stati occupati dai seguaci di Grillo fin dal primo giorno e da allora sono passati due anni, non due mesi, senza che nessun pensiero incisivo giungesse da quel pulpito su una materia di competenza. Come si fa a uscire dal ruolo di governo, come da un taxi, per rivestire i panni dell’opposizione, peraltro proprio ora che un ritrovato buon senso sembra star portando ad una soluzione utile al Paese?
(s.l.)