Le terapie geniche, che consistono nel trasferimento di geni sani in cellule malate, sono già in grado di cambiare la vita a pazienti affetti da malattie genetiche rare quali certe forme di cecità; ma in futuro potrebbero curare anche malattie comuni. Ecco perché Roche, gigante globale della farmaceutica e della diagnostica, attivo in oltre 100 paesi, circa 98mila dipendenti in tutto il mondo, forte degli ottimi risultati 2019 con una crescita del 9% del fatturato a circa 57,5 miliardi di euro e dell’utile operativo dell’11% a 21 miliardi, ha appena acquisito l’americana Spark Therapeutics per quasi 4 miliardi di euro.
Un’analisi approfondita del genoma umano e delle anomalie genetiche ha permesso agli scienziati di Spark di adattare le terapie sperimentali ai pazienti, con risultati straordinari. Roche, che ha investito nel 2019 quasi 11 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, ha anche da poco firmato un accordo di licenza con Sarepta Therapeutics relativo alla terapia genica sperimentale per la distrofia muscolare di Duchenne. «Le terapie geniche per ora raggiungono un numero limitato di pazienti, ma se riusciremo ad applicarle a malattie comuni le cose cambieranno», ci ha spiegato il ceo di Roche Severin Schwan (nella foto). Lo abbiamo intervistato nel quartier generale Roche di Basilea sul fiume Reno, dove accanto alla Roche Tower, il più alto grattacielo della Svizzera con 178 metri di altezza inaugurato nel 2015, ne sta sorgendo un altro che sarà ancora più alto. Schwan ci ha parlato anche delle grandi potenzialità dei big data, di come il sistema sanitario regionalizzato italiano faccia a pugni con la necessità di condividere i dati, di previsioni per il 2020 e di sostenibilità, fiore all’occhiello di Roche per la sensibilità in materia delle famiglie fondatrici Hoffmann e Oeri ben prima che il tema diventasse di moda.
Spark therapeutics ha introdotto la prima terapia genica per l’amaurosi congenita di leber, una malattia rara che colpisce gli occhi
Quali sono le aspettative di Roche sulle terapie geniche?
Le prime terapie geniche entrate sul mercato fanno un’enorme differenza nella vita dei pazienti. L’azienda che abbiamo da poco acquisito, Spark Therapeutics, ha introdotto la prima terapia genica per una malattia molto rara dell’occhio (l’amaurosi congenita di Leber, ndr), e la vita di quei pazienti (tra i quali anche bambini, ndr) è cambiata completamente. Abbiamo così avuto una prova della loro straordinaria efficacia. In particolare, per quelle malattie rare ora è conosciuta esattamente la causa genetica. Ma potenzialmente, sul lungo termine, si potrebbe usare questa tecnologia anche per malattie più comuni. Quindi crediamo che mentre in un primo periodo le terapie geniche saranno rilevanti per le malattie rare e si focalizzeranno su queste, potrebbe esserci anche un secondo step molto importante oltre al primo; stiamo investendo anche per questo. Siamo ancora in una fase iniziale, ci vorranno molti anni prima che questo tipo di tecnologia diventi più diffuso nelle pratiche cliniche, ma tutto sta cominciando adesso.
Dal punto di vista del mercato farmaceutico, che importanza e che peso avranno le terapie geniche?
Per ora l’impatto è molto limitato. Le malattie monogeniche sono tipicamente malattie rare, ci sono piccoli numeri di pazienti e quindi anche il mercato è molto limitato. Ma è anche vero che ci sono molte malattie genetiche, letteralmente centinaia, migliaia di diverse malattie; se riusciremo a trovare il modo per sviluppare questi farmaci in un modo efficace, allora nel tempo potremo servire tanti pazienti. Inoltre c’è questa ulteriore opportunità oltre le malattie monogeniche, quella di riuscire a curare anche malattie comuni. Siamo in una fase iniziale, ma se arriveremo a quel livello allora potrebbe davvero diventare una tecnologia importante. Vedremo come la scienza e i farmaci si svilupperanno, noi comunque vogliamo essere parte di questo processo, non vogliamo guardarlo bensì plasmarlo, vogliamo essere parte dell’opportunità.
Quali possibilità apre l’uso dei big data per lo sviluppo di nuovi farmaci?
Riteniamo che l’analisi dei dati raccolti dai sistemi sanitari nella pratica clinica apra un’enorme opportunità. Oggi se sviluppiamo farmaci è grazie alle sperimentazioni cliniche standardizzate, da cui però si trae una quantità limitata di dati. Se riusciremo ad avere accesso a dati dei pazienti di alta qualità dalla pratica clinica, allora avremo una quantità di dati molto maggiore, e come risultato potremo avere un’analisi molto più profonda. In una piccola sperimentazione clinica, per esempio, non puoi sapere se una parte dei pazienti reagisce bene a un farmaco e un’altra ha degli effetti collaterali, mentre invece puoi vederlo se hai grandi numeri. Questo ti aiuta a sviluppare nuovi potenziali farmaci, perché ti permette di andare più in profondità, per esempio vedere se c’è una variazione genetica nei pazienti che rispondono molto bene oppure che non rispondono. Avere informazioni più dettagliate ti permette di realizzare nuovi farmaci, quindi è di estrema importanza.
Cosa si deve fare per passare dai dati limitati che sono disponibili oggi ai big data che possano aiutare a concepire nuovi farmaci?
Il prerequisito per questo passaggio è che i dati siano digitalizzati, questa è la grande questione oggi. Tipicamente, quando vai dal dottore tutto è ancora molto analogico, prende appunti ma non necessariamente li digitalizza; inoltre se i dati sono molto frammentati non riesci a aggregarli. Ci sono ancora molte sfide da affrontare. Si parla di collaborazione a livello europeo, ma sarei già contento se ci fosse più standardizzazione a livello di ogni singolo stato. In Italia per esempio c’è un sistema sanitario molto regionalizzato, ogni regione ha il suo sistema, le sue politiche, ed è quasi impossibile integrare i dati di due diversi ospedali. Il nostro approccio è lavorare con gli ospedali e iniziare a collegarli. Ci sono altri sistemi come quello del Regno Unito che sono molto più centralizzati, ed è più facile connetterli su un livello nazionale. Andare oltre, a un livello europeo, sarebbe ottimo, ma siamo davvero molto distanti.
Come giudica i risultati ottenuti da Roche nel 2019?
È stato un anno ottimo e non solo per i risultati finanziari. Sono particolarmente soddisfatto del lancio dei nuovi farmaci antitumorali Polivy e Rozlytrek, delle indicazioni aggiuntive per Tecentriq e Kadcyla e della revisione prioritaria per Risdiplam, il nostro nuovo farmaco per un disturbo neurologico. Sulla base dei progressi compiuti nel ringiovanimento del portafoglio prodotti, Roche è ben posizionata per crescere in futuro.
Quindi è ottimista anche per l’anno in corso?
Nel 2020 ci sarà una pressione importante dei biosimilari (i farmaci biologici simili a quelli coperti da brevetto, introdotti allo scadere dello stesso, che già quest’anno hanno contenuto la crescita di Roche sul mercato europeo, ndr) specie negli Stati Uniti, ma allo stesso tempo le dinamiche per i nuovi farmaci sono molto buone e abbiamo fiducia. Ci aspettiamo una crescita delle vendite a singola cifra non molto alta, di mantenere la nostra profittabilità, e guadagni in linea con le vendite. Siamo ottimisti, tutto è guidato dalla domanda di nuove medicine.
Qual è l’approccio di Roche al grande tema della sostenibilità?
Credo davvero che Roche possa essere super orgogliosa, perché ce ne siamo preoccupati ancor prima che la parola fosse inventata. Le nostre famiglie fondatrici Hoffmann e Oeri, che ancora detengono la maggioranza delle azioni Roche, hanno investito molto in quest’area fin dagli anni Cinquanta. Questo influenza il modo con il quale guardiamo alla materia, ed è anche parte integrante del nostro modo di fare business. Oggi si parla tanto di CO2, noi abbiamo un programma in materia fin da quando nessuno ne parlava. Negli ultimi 25 anni, e io sono stato molto soddisfatto quando ho visto i numeri, abbiamo ridotto il CO2 per dipendente dell’80%. L’80% in 25 anni! Abbiamo programmi in corso per continuare su questa strada, non solo sul CO2, per fare un esempio anche sul consumo di energia abbiamo obiettivi molto ambiziosi. Tutto questo è accaduto prima che se ne parlasse proprio perché abbiamo questa eredità. Il che è stato riconosciuto anche dall’esterno, uno dei principali indicatori è il Sustainability index by Dow Jones, e su 11 anni per 10 siamo stati l’azienda dell’healthcare più sostenibile del mondo. Lo eravamo anche prima, ma fino a dieci anni fa nessuno ci badava…