Ci piace: il bello di Invitalia ora veste Corneliani
La holding pubblica è riuscita a coinvolgere il colosso Investcorp nel salvataggio e a fargli investire 7 milioni
Domenico Arcuri (nella foto), il discusso ex-commissario all’emergenza Covid, strascelto da Giuseppe Conte e dimissionato da Mario Draghi, non aveva mai mollato la presa su Invitalia, la holding di partecipazioni industriali del governo di cui è amministratore delegato. E, sotto l’egida del nuovo ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, l’Invitalia “di Arcuri” ha firmato pochi giorni fa un’operazione di salvataggio in grande stile, quella della Corneliani di Mantova, che scongiura la chiusura di una azienda tessile storica, attiva dal 1930.
Il tavolo decisivo per l’accordo ha coinvolto sindacati, azienda, Regione Lombardia, Comune di Mantova, Invitalia e il Fondo Investcorp, non nuovo a incursioni vincenti nel lusso italiano (fu proprio lui a rilevare, tanti anni fa, la Gucci). La nuova compagine investirà di 17 milioni di euro in una newco che “ridarà un futuro alle lavoratrici e ai lavoratori di Mantova”, ha detto Giorgetti. Di fronte al piano industriale, convincente, Investcorp ha deciso di investire 7 dei 17 milioni in arrivo, destinato a diventare azionista di maggioranza della società, che avrebbe così modo di accedere al Fondo marchi storici creato dal Governo garantendo il concordato in continuità e scongiurando la liquidazione dell’azienda. L’operazione dovrà essere perfezionata entro il 13 aprile. Ora si dovrà lavorare al piano industriale e occupazionale da presentare ai sindacati. La prossima settimana è previsto un nuovo incontro. Per Arcuri una piccola soddisfazione ma importante, dopo la doccia gelata dell’estromissione dall’incarico emergenziale.
Non ci piace: se il delivery nel cesto porta anche disagio sociale
Deliveroo, leader del settore, è cresciuta grazie al Covid e punta alla Borsa ma trascura i diritti sociali dei riders
Ma quanto fa bene il Covid al food delivery. In città e paesi deserti, le uniche anime vive in circolazione pedalavano a ore pasti portando in spalla termozaini cubici delle varie Glovo, Uber-eats, Just Eat e Deliveroo. Che nel 2020, appunto, ha brillato per performance,: non solo ha ridotto le perdite a 223,7 milioni di sterline (rispetto ai 317 milioni del 2019), ma il valore lordo delle transazioni si è impennato del 64%, portando il valore degli acquisti gestiti a 4,1 miliardi di sterline. E sempre Deliveroo prevede di aumentare i proventi lordi di circa un miliardo di sterline. Sarà forse perché, stando a quel che riferiscono i ristoratori, le commissioni (del food delivery in generale) sono aumentate? Erano del 23% prima della pandemia. E col Covid sono diventate del 30-40%. Prendere o lasciare. E per non tirare giù la serranda, alternative non ce ne sono, diciamocelo. È il libero mercato, d’altronde. Libero tanto quanto il “lavoretto” che vuole la gig economy alimentarsi sulle spalle (in questo caso letteralmente) di chi non ha troppe alternative. I 733mila euro di sanzioni – quelle comminate dalla Procura di Milano a Deliveroo, Just eat, Glovo e Uber eats – da pagare per le violazioni dei diritti dei riders (anche in tema di sicurezza) algoritmi al limite del caporalato? Quisquiglie: è sempre il libero mercato.
E, non paga, Deliveroo sta per incassare un superbonus da 1 miliardo di sterline (circa 1,16 miliardi di euro): si quoterà a Londra con quella che promette di essere la più grande Ipo dal 2013 e che la porterà a una capitalizzazione di mercato compresa tra 7,6 e 8,8 miliardi di sterline (da 8,85 a 10,25 miliardi di euro).