Da sinistra: Debora Moretti (presidente della Fondazione Libellula), Francesco Manzini (executive director di Spring Professional) e Alessandro Fiorelli, amministratore delegato di JobPricing
C’è un gender gap che funziona al contrario, in cui le donne guadagnano più degli uomini. Prendiamo il caso di agricoltura, allevamento, silvicoltura e pesca: gli uomini guadagnano in media 23.865 euro, le domme 23.920, lo 0,2% in più. Poca roba, direte voi. Ma salendo nella classifica del reverse gender salary gap troviamo l’industry del legno, con una differenza positiva per le donne dello 0,7%, trasporti e logistica (2,2%), energia, utilities e servizi ambientali (3,7%), cemento, laterizi e ceramica (6.7%), navale (6,9%), oil & gas (8,5%), areonautica (9,8%) fino al 15,4% di edilizia e costruzioni, in cui le donne portano a casa una retribuzione annua lorda media di 31.085 euro conto i 26.297 euro degli uomini. E comunque, estendendo l’analisi all’intero database di JobPricing (parliamo di oltre 450mila osservazioni), circa un quinto delle posizioni vedono le donne con stipendi migliori degli uomini. E ora frenate l’entusiasmo: «Tocca osservare che il gap, quando è a favore delle donne, è meno significativo», spiega a Economy Alessandro Fiorelli, amministratore delegato di JobPricing: «nel primo caso in media c’è un differenziale del 15% circa, nel secondo del 28%». E in effetti il Gender Gap report 2020 di JobPricing, presentato da Spring Professional con il supporto di Fondazione Libellula (vedi riquadro) ci vede ancora al 76° posto su 149 Paesi nel mondo (in un anno abbiamo perso ben 6 posizioni, sappiatelo) per quanto concerne la capacità di colmare le differenze di genere,17esimi sui 20 Paesi dell’Europa occidentale. Quanto alla parità salariale, siamo nelle retrovie: 125esimi su 149 Paesi. Senza contare che in Italia ci sono 1,6 milioni di donne in più rispetto agli uomini, ma le lavoratrici sono 3,6 milioni in meno dei colleghi maschi.
E poi c’è il Gender pay gap, appunto: Eurostat ci posiziona al 18° posto su 24 Paesi per ampiezza del Gender pay gap nel settore privato. «In Italia si registra un divario salariale dell’11% circa, pari a 3mila euro lordi annui: vuol dire che se un uomo e una donna lavorano per un anno full-time, l’uomo viene pagato dal primo di gennaio, la donna dal 6 febbraio», spiega Fiorelli. «Peraltro il gap cresce a oltre il 20% se si tiene presente che le donne in realtà lavorano in media meno ore degli uomini perché c’è un ricorso molto maggiore al part-time e ai contratti a tempo determinato».
La colpa è della (mancata) carriera: sono donne il 32% dei dirigenti, il 46% dei quadri, il 57% degli impiegati e il 35% degli operai. E se è vero che Legge Golfo-Mosca negli ultimi dieci anni ha fatto avanzare la presenza femminile nei board delle aziende quotate (le donne all’interno dei Cda nel 2019 sono state il 36,4%, contro il 5,9% 2008), è altrettanto vero che i presidenti di Cda sono quasi triplicati dal 2013 ad oggi, ma nello stesso periodo il numero di ceo donna è cresciuto di appena tre unità. «Non esiste alcun effetto volano della Legge Golfo-Mosca», sottolinea Fiorelli. «Ritengo che questo genere di norme siano necessarie, eppure insufficienti. Mi chiedo, allora, se non sia il caso di passare dal bastone alla carota, dai vincoli alle opportunità. Visto che in un contesto come quello italiano, dove la maggior parte delle imprese ha un problema di gender gap, non pare credibile che le minacce di sanzioni funzionino più di tanto, non sarebbe più efficace offrire stimoli al cambiamento e premiare chi si impegna concretamente nel realizzare luoghi di lavoro liberi dalla discriminazione di genere?».
Il problema, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è culturale. «Il fatto è che le donne sono arrivate al lavoro salariato storicamente dopo gli uomini e sono in un certo senso in rimonta», commenta Fiorelli. «Ma questa rimonta, lo sappiamo, è frenata principalmente dal fatto che sulle spalle delle donne tutt’oggi ricadono le maggiori responsabilità del “lavoro domestico” e delle cure familiari. Una donna che lavori part-time perché deve farsi carico delle incombenze domestiche, da un lato riduce le sue possibilità di carriera in prospettiva, dall’altro nell’immediato comprime il suo reddito disponibile. Fra l’altro con l’esito che anche in termini pensionistici risulteranno penalizzate al momento del ritiro: la Ue stima che le pensioni delle donne sono in media il 30% più basse di quelle degli uomini. E dato che nel frattempo il marito o compagno lavora full-time e può concentrarsi sulla crescita professionale, mentre lei resta ferma, lui si muove e il gap di genere si amplifica».
Certo, un po’ ce la siamo andate a cercare… studiando. È vero che le donne si laureano più degli uomini, in meno tempo e con voti più alti, peccato che scelgano le facoltà sbagliate. «Le studentesse tutt’oggi si orientano troppo poco agli studi Stem (le discipline scientifico-tecnologiche), che però sono quelli a maggior tasso di occupazione post-laurea e che garantiscono salari d’ingresso e reward path migliori, ma solo il 26,3% dei laureati in ingegneria è donna e in generale in ambito scientifico non si supera il 30%», prosegue Fiorelli. «D’altra parte nelle facoltà di tipo umanistico, psicologico e sociologico la stragrande maggioranza di laureati è femmina. Si crea così un disallineamento fra le competenze richieste dal mercato e quelle disponibili, che poi contribuisce ai bassi tassi di occupazione delle donne laureate ed alimenta in generale il fenomeno c.d. della “sovra-istruzione”: laureati che occupano posizioni per cui sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso». Peccato, perché stando ai dati del sistema informativo Excelsior di Unioncamere, nel periodo 2019-23, a fronte di un’offerta di 664.700 laureati, il fabbisogno potrebbe essere fra 823.400 e 908.100, con particolari difficoltà di reperimento per i percorsi di studi economico-statistico, ingegneria, medico-sanitario, scientifico, fisico e matematico. «I giovani, insomma, e le ragazze in primo luogo, dovrebbero prestare molta attenzione non solo al fatto di studiare, ma anche a che cosa studiare».