Edgardo Ratti, partner di Littler

Il contratto collettivo nazionale di lavoro? Esiste e va applicato, certo, ma non è scolpito nella pietra. «Anzi», esordisce Edgardo Ratti, partner di Littler, il più grande studio legale internazionale che si occupa di diritto del lavoro a livello datoriale – in Italia ha sede a Milano e offre consulenza legale alle società in tutti gli ambiti, dal contenzioso alle ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, dai trasferimenti di rami d’azienda alla consulenza day by day -: «più spesso di quanto si creda il Ccnl rimanda alla contrattazione aziendale la disciplina di tantissimi aspetti del rapporto tra azienda e lavoratori».

Insomma, c’è margine di manovra.

Eccome: è ampio e si chiama “contrattazione aziendale”, che in linea generale disciplina il rapporto sempre nel rispetto del Ccnl e in maniera sostanzialmente di favore per i lavoratori…

…Ma?

Ma nel 2011 è subentrato uno snodo fondamentale, quando nel decreto 138/2011 all’art.8 sono stati previsti degli speciali accordi aziendali, ovvero gli “accordi di prossimità”, attraverso i quali si può addirittura derogare in peius il Ccnl e la legge italiana. Si tratta sempre di contratti collettivi aziendali, ma con questa prerogativa particolare di restituire all’azienda voce in capitolo.

Troppo bello per essere vero. Dov’è la fregatura?

Non c’è, esiste invece un presupposto essenziale: l’impresa deve potere contare su una relazione sindacale di qualità per riuscire a raggiungere accordi aziendali di tale genere che possano rivedere, in maniera favorevole per l’azienda ma pur sempre sostenibile per i dipendenti, la disciplina di alcuni aspetti del rapporto di lavoro. È giusto chiarirlo: gli accordi sono possibili solo se c’è un buon dialogo con le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) o con le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). E se, ovviamente, in questa relazione c’è sempre stata attenzione reciproca, con un rapporto do ut des consolidato. Il che ci induce a una riflessione un po’ filosofica, ma in fin dei conti pragmatica.

Ovvero?

Chi ha sempre investito poco nelle relazioni sindacali e, a monte, nella costruzione di una direzione Hr forte e strutturata anche a livello di professionalità e di consulenza, oggi si trova in difficoltà proprio perché non ha investito in modo strategico. E con una relazione sindacale non coltivata, la direzione Hr non può incassare i frutti che – oggi più che mai in tempi di crisi – sarebbero utili per il bene dell’azienda.

Insomma: bisogna saperlo prima, che dopo ci sarà la crisi.

Sempre meglio metterla in conto. E poi, i momenti di crisi sono sempre anche momenti di opportunità. Ma bisogna essere, lato azienda, ben attrezzati.

È possibile mettere una pezza?

È sempre possibile. L’importante, secondo la vecchia ma sempre valida regola del do ut des, è far intravedere ai nostri interlocutori le opportunità anche per loro.

Tipo?

Per esempio, temi caldi come smart working (attenzione, ove sostenibile) o welfare aziendale non richiedono alcun accordo sindacale, ma potrebbe essere opportuno e strategico metterli, ove percorribili, sul piatto, così da poter interloquire con il sindacato per poi cercare di ottenere una contropartita quando ci sarà un momento difficoltà. Ci può sempre essere un momento di restituzione dei benefici elargiti dall’azienda: si tratta di effettuare reciproche concessioni in un’ottica lungimirante, win-win potremmo dire.

Tornando agli accordi di prossimità?

Prevedono che l’azienda, di concerto con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative o le loro promanazioni a livello aziendale, possano stabilire accordi aziendali che deroghino alle disposizioni di legge e dei Ccnl per quanto riguarda una serie ampissima di aspetti afferenti la disciplina del rapporto di lavoro. E quindi modifica delle condizioni salariali, modifica dell’orario di lavoro, assunzioni a tempo determinato oltre i limiti, ricorso a contratti flessibili… Il requisito è che tali accordi siano finalizzati alla gestione di una crisi aziendale ed occupazionale, oppure a migliorare le condizioni dei lavoratori o ancora a favorire l’avvio di nuove iniziative economiche o startup, il tutto ovviamente nel rispetto dei principi cardine della costituzione e delle normative comunitarie in materia di diritto del lavoro. 

Criteri piuttosto vaghi. 

Infatti: per esempio per scongiurare una crisi aziendale ed occupazionale ci potrebbe essere la riduzione dell’orario di lavoro con conseguente decurtazione della retribuzione, oppure per favorire nuove attività aziendali si potrebbero assumere nuovi lavoratori inquadrandoli però ad un livello inferiore.

Ma se le aziende lo sanno, perché non ne approfittano?

Questi accordi sono rari perché purtroppo sono stati scoraggiati a livello politico dai sindacati nazionali. E poi bisogna dire che, lato azienda, occorre essere bravi nell’incentivare, spiegare… e coltivare le relazioni con le rappresentanze sindacali che – come sappiamo – si basano sempre su stima e affidamento reciproco. Cose che non accadono dall’oggi al domani: occorre un investimento di medio-lungo termine.

È comprensibile: andrebbero a erodere le loro prerogative. 

Eh già… E poi i sindacati oggi hanno anche un problema di rappresentatività.

Senza contare che occorre anche avere una rappresentanza sindacale interna: in genere si tratta di aziende medio-grandi.

Sì, ma quando diciamo “media azienda” in Italia parliamo spesso di 50-60 persone… E sovente tali realtà hanno, al loro interno, rappresentanze sindacali. Ovviamente, non vale una sigla di comodo; occorre che gli accordi vengano sottoscritti dalla rappresentanza sindacale che sia promanazione dei sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale o quanto meno territoriale, ma sul concetto di maggior rappresentatività potremmo discuterne per intere giornate senza trovare una quadra. 

D’altra parte l’articolo 39 della Costituzione è sempre rimasto lettera morta laddove prevede la registrazione dei sindacati, che quindi non hanno personalità  giuridica.  

La scelta sindacale è sempre stata una scelta di libertà. E non ci sono parametri legali per definire cosa sia un sindacato maggiormente rappresentativo, ma solo indicazioni giurisprudenziali non univoche e piuttosto ondivaghe che generalmente fanno riferimento a dati per lo più autocertificati dagli stessi sindacati. 

E qui torniamo ai margini di manovra.

Tutto questo presuppone avere una cultura Hr che in Italia è ancora poco diffusa: talvolta c’è parecchia improvvisazione e troppa sottovalutazione del ruolo strategico della professionalità Hr. Dalla crisi del 2008 in poi abbiamo assistito al fenomeno del contenimento dei costi anche per quanto riguarda il recruitment sul versante Hr, con conseguente impoverimento di tali strutture che si è spesso tradotto in minori competenza e capacità di gestione degli aspetti Hr più complessi. Peraltro a ciò si è affiancata – come in una “tempesta perfetta” – la crescente complessità del diritto del lavoro. In rapida successione sono infatti arrivati il Collegato Lavoro nel 2010, la Legge Fornero nel 2012, il Job Act nel 2015, il Decreto Dignità nel 2018. Quattro riforme che hanno creato scompiglio una volta che hanno fatto ingresso nelle aziende e ciò peraltro a fronte di una forza delle strutture Hr che non sempre era più quella di dieci anni prima. Aspetti disfunzionali spesso esistono però anche sul versante consulenziale e la contrazione dei budget di spesa aziendali ha concorso talvolta a far sì che anche la consulenza non sia più guidata da innovazione, investimento e alta strategia. Per rivolgere lo sguardo al futuro occorre essere supportati da professionisti sempre attenti alle novità. Non mi stupisce, ad esempio, che siano poco conosciuti i contratti collettivi di ultima generazione, che potrebbero essere interessanti per numerose realtà: ci sono infatti contratti, al di fuori dei Ccnl storici, che sono ben più rispondenti alle necessità attuali rispetto agli impianti contrattuali di cinquant’anni fa che fotografavano ovviamente esigenze ben differenti da quelle di oggi. 

C’è per esempio il Ccnl per i dipendenti delle aziende operanti nel settore Ict sottoscritto nel 2021 da Cifa e Confsal, eppure le aziende del settore stanno ancora accapigliandosi sul rinnovo del Contratto del Commercio.

Non solo: c’è il Ccnl per dirigenti, quadri, impiegati e operai del Terziario Avanzato sottoscritto nel 2018 e rinnovato a settembre 2022. È poco conosciuto e non è un “contratto pirata”, eppure è più favorevole per l’azienda in termini di flessibilità, senza togliere diritti ai lavoratori, e attualizza le esigenze delle aziende con figure professionali nuove. Trovo assurdo, ad esempio, che nei Ccnl più diffusi non ci sia una riga sul tema delle professionalità che operano, ad esempio, in full remote. Bisognerebbe poi e soprattutto avere il coraggio di passare ad introdurre nei Ccnl il concetto di lavoro per obiettivi anche se, per l’appunto, si tratta di lavoro subordinato.

E invece rimaniamo ancorati a concetti come il luogo e l’orario di lavoro, che per legge devono essere indicati in contratto.

Essere in azienda per otto ore scaldando la sedia non è produttivo: bisogna uscire dal paradigma della mera prestazione e passare a quello del risultato. E coinvolgere i dipendenti facendoli partecipare agli utili e all’azionariato, inserendone rappresentanti nel board. All’estero succede. L’inclusione è nei fatti e non nella retorica. Altro allora che dimissioni di massa…