Pnrr, Nardella: «Troppa burocrazia, i cantieri sono a rischio»

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Quella del “Piano Giavazzi” è una vicenda che spiega bene perché tutti i tentativi di sburocratizzare l’Italia finiscano con un fallimento. Nel 2012 l’economista Francesco Giavazzi, su incarico del governo Monti, presenta un progetto di riforma degli incentivi alle imprese. La sua proposta è semplice: tagliare 10 miliardi di incentivi, che vanno a un numero limitato di aziende, per abbattere dello stesso importo il carico fiscale su tutte le imprese. Il Governo si mostra favorevole, ma soprattutto è d’accordo la stessa Confindustria, il che sembra aprire la strada al provvedimento. Risultato: non se ne fa niente. Il perché lo ha spiegato lo stesso Giavazzi: «Questi tagli di spesa avrebbero comportato la chiusura di metà degli uffici del ministero dello Sviluppo economico, e il ministro del tempo, Corrado Passera, si dimostrò tiepido verso il rapporto» afferma l’economista con Giorgio Barbieri nel volume “I signori del tempo perso”: «È un esempio perfetto: i sussidi non furono eliminati per l’opposizione di chi li riceveva – e di Confindustria che li rappresentava – ma per l’opposizione di chi li amministrava. Cioè dei dirigenti del ministero di via Veneto, che di fronte alla prospettiva di perdere (non il posto) ma il potere di gestire 10 miliardi di euro l’anno si sono “dati da fare”». Il timore dello sciopero degli autotrasportatori, beneficiari di buona parte dei sussidi, ha fatto il resto.

Solo per pagare i 14 principali adempimenti fiscali le imprese impiegano 238 ore: si tratta di oltre sei settimane di lavoro

Qualcosa di simile è successo a Carlo Cottarelli quand’era commissario alla spending review
del governo Letta: «Non facevo parte della macchina della pubblica amministrazione, per cui certe informazioni non mi arrivavano e certi disegni di legge non mi venivano fatti vedere prima» ha affermato. «Lo stesso decreto legge 66, quello che oltre a contenere lo sconto fiscale di 80 euro realizzava la spending review, l’ho visto solo all’ultimo momento» racconta Cottarelli a Economy, «in occasione delle ultime discussioni alla presidenza del Consiglio. Loro l’hanno scritto, e ogni tanto mi passavano qualcosa». “Loro” chi? «I capi degli uffici legislativi dei ministeri e i capi di gabinetto» risponde Cottarelli. L’economista di Cremona, che prima della nascita del governo gialloverde era stato incaricato di formare un governo da Sergio Mattarella, ha affermato che se fosse diventato Presidente del Consiglio («ma non con un mandato a termine») avrebbe «ingaggiato una lotta spietata alla burocrazia». In che modo? «Avrei preso 20 imprenditori gentili e li avrei messi in una stanza per una settimana» dice ancora Cottarelli, «per capire quali sono gli adempimenti burocratici che li ostacolano di più, ed elaborare misure concrete sulla base delle loro proposte. Poi avrei messo gli stessi 20 imprenditori a vigilare sull’operato dei capi degli uffici legislativi dei ministeri: 40 occhi puntati su ogni passaggio di scrittura delle norme».

Cottarelli ha da poco aderito, con l’Osservatorio conti pubblici italiani dell’università Cattolica che dirige, al progetto “Sconfiggiamo la burocrazia” della Fondazione Think Tank Nord Est, che nasce proprio dall’idea di ascoltare gli imprenditori e formulare proposte concrete per cancellare adempimenti inutili o renderli più semplici: «Per rilanciare la crescita bisogna snellire la burocrazia» ha ribadito mr. spending review. Ma perché questo metodo di buon senso non è mai stato adottato? «Prima di tutto perché chi ha scritto fin qui le leggi vuole continuare a farlo: la burocrazia di Roma non è favorevole» dice Cottarelli, «e inoltre perché è difficile vincere le elezioni sulla lotta alla burocrazia, la gente non la considera una priorità, preferisce eleggere chi promette il reddito di cittadinanza o quota 100». Certo la politica non è esente da colpe. Angelo Ciancarella, giornalista di lungo corso che ha avuto modo di conoscere da vicino la macchina amministrativa, lo spiega in modo chiaro e conciso: «Tutti i governi e i ministri della Funzione pubblica (Bassanini, Frattini, Brunetta, Patroni Griffi, Madia…), da 20 anni fanno la riforma della Pa, che li occupa per tutta la legislatura solo per approvarla, così poi i burocrati (che la scrivono male, apposta) la smontano (decreti attuativi non emanati, Tar, Consiglio di Stato, Corte costituzionale) e tirano un sospiro di sollievo. I governi si preoccupano solo dell’effetto annuncio e se ne fregano poi dell’attuazione concreta». Secondo Angelo Panebianco, che cita ancora il libro di Giavazzi e Barbieri, l’ultima dimostrazione in ordine di tempo dell’impotenza della politica di fronte alla burocrazia è il fallimento della riforma Madia, il tentativo del governo Renzi di cambiare la pubblica amministrazione: «Voleva incidere colpendo l’inamovibilità dei dirigenti e introducendo, addirittura, la possibilità di licenziarli» ha scritto Panebianco sul Corriere, «È stata fermata da un fuoco di sbarramento che ha coinvolto i potentissimi capi di gabinetto (i veri reggitori dello Stato, molto più importanti dei ministri), il Consiglio di Stato, la Corte costituzionale.

I ministri della funzione pubblica impiegano anni per una riforma che poi i funzionari puntualmente smontano pezzo per pezzo

La burocrazia non si fa riformare da nessuno». Il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, si è spinto oltre, affermando che ormai la burocrazia fa tutto da sola: ingloba in sé il momento progettuale (la preparazione di leggi, misure, regolamenti); organizza i percorsi di approvazione, di emanazione e di applicazione; determina sanzioni; gestisce e distribuisce le risorse, non ha bisogno della politica se non come simulacro, come involucro che serve a salvare la forma. Nella sostanza, essa stessa si è fatta politica. «Con l’incredibile incremento della produzione legislativa necessaria a regolare la nuova complessità sociale ed economica, la burocrazia da esecutore si è trasformata prima in attore, poi in protagonista, poi ancora in casta e, infine, in vero e proprio potere al pari, se non al di sopra, di quello politico, economico, giudiziario, legislativo, esecutivo, dell’informazione» ha accusato il Presidente dell’Eurispes. E Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale nonché ex ministro della Funzione Pubblica del governo di Carlo Azeglio Ciampi, nell’intervista a Economy che trovate in queste pagine sottolinea come quel che definisce l’assedio alla burocrazia, e in particolare il tentativo di limitare la discrezionalità amministrativa attraverso la moltiplicazione delle leggi, abbia prodotto paradossalmente un effetto opposto, lasciando all’esecutore la scelta tra le norme da applicare.

Il peso della burocrazia abbatte il profitto lordo delle piccole e medie imprese da 1 a 19 addetti del 39% e costa fino a 38,5 miliardi

La burocrazia non si limita a bloccare con successo ogni tentativo di limitarla. È anche un cecchino infallibile, perché sa esattamente come azzoppare al meglio l’economia italiana: colpendo le Pmi, tessuto vitale del sistema produttivo, e in particolare le piccole imprese. Secondo i calcoli del direttore dell’ufficio studi di Confcommercio Mariano Bella, il peso della burocrazia abbatte il profitto lordo delle piccole imprese da 1 a 19 addetti del 39%, con un costo aggregato compreso tra 28,1 e 38,5 miliardi di euro. L’Osservatorio sulla Semplificazione di Assolombarda “Quanto costa la burocrazia?” conferma che le Pmi, e in particolare le piccole imprese, sono colpite in modo pesante. Lo studio analizza nove procedure burocratiche negli ambiti ambiente, edilizia, fisco, lavoro e previdenza e salute/sicurezza sul lavoro. Per i settori chimico e meccatronico, le piccole imprese hanno sostenuto nel 2017 costi complessivi compresi tra 166.618 e 250.312 euro, con un’incidenza sul fatturato tra il 2,7% e il 4%, in aumento dal 2,6% – 3,7% del 2016. Le medie imprese hanno speso da 531.262 a 1.100.643 euro, cifre più elevate in termini assoluti ma con un’incidenza sul fatturato inferiore, compresa tra l’1,1% ed il 2,2% (anche in questo caso in aumento dallo 0,8% – 1,4% del 2016). Anche per quanto riguarda il tempo impiegato per le incombenze burocratiche, le piccole imprese hanno impiegato 22 ore per addetto annue, contro le 10 ore/addetto delle medie imprese. «La burocrazia viene avvertita come uno dei principali ostacoli al fare impresa: in questa direzione nasce l’Osservatorio sulla Semplificazione» dice Alessandro Enginoli, presidente Piccola Industria di Assolombarda, «Se è vero che la Pa deve fare ancora passi avanti, in termini di semplificazione e digitalizzazione, elementi chiave per la competitività delle aziende e l’attrattività del territorio; è altrettanto importante che le aziende – in particolare le piccole – colmino il loro ritardo nei processi di digitalizzazione». Le Pmi lombarde, che impiegano fino a 1825 giorni invece dei 150 massimi previsti dalla legge per il rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale, spendono di più in burocrazia di quanto riescano ad investire in ricerca e sviluppo.

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Enginoli chiede risposte alla Pa, ma invita anche le piccole imprese a fare la loro parte: «Per le imprese semplificare vuole dire soprattutto poter contare su leggi chiare e tempi certi, su una banca dati digitale, su una legislazione pensata in digitale e sull’applicazione della tecnologia digitale ai servizi» sottolinea il presidente Piccola Industria di Assolombarda, «Allo stesso tempo le Piccole Imprese devono vincere la sfida della digitalizzazione: un bene necessario che determina un indiscusso vantaggio competitivo per le aziende proiettandole nel futuro». Uno dei problemi lamentati dalle Pmi lombarde nel rapporto con la burocrazia è quello delle continue richieste di documenti già prodotti, dovuto alla mancanza di comunicazione tra i sistemi gestionali delle diverse amministrazioni, quando non di diversi uffici della stessa. Il che rimanda a una delle tante delusioni dell’eternamente promessa semplificazione della burocrazia: il Suap, Sportello unico attività produttiva, che qualcuno ha ribattezzato “Sportello unico a parole”… «È nato con uno scopo molto nobile ma poi ha incontrato per strada diversi problemi» dice Enginoli, «tra cui proprio quello dei sistemi gestionali che non riescono a dialogare con quelli delle altre amministrazioni». Il 59,8% degli associati di Unindustria Reggio Emilia, interpellati per il progetto “Pmi&Pa”, sostiene che i costi degli adempimenti burocratici sono aumentati nel corso degli ultimi tre anni, per il 20,6% in misura notevole. La stessa indagine rivela che metà degli associati si dichiarano “per niente soddisfatti” proprio della condivisione tra banche dati della Pa, mentre nessuna azienda si dice pienamente soddisfatta dello Sportello unico per le imprese; il 61% ne è deluso o è incerto sul giudizio, e solo il 39% è mediamente soddisfatta: e siamo a Reggio Emilia. L’incomunicabilità tra le oltre cento banche dati della Pa fotografa l’abitudine della burocrazia a custodire gelosamente il proprio ruolo e i propri privilegi, ed è un altro ostacolo che pare invalicabile.

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Qualche tempo fa Stefano Parisi osservava che le banche dati delle amministrazioni della Finanza, cioè quelle del Dipartimento delle Finanze, dell’Agenzia del Demanio, dell’Agenzia delle dogane, di Equitalia, della Scuola Superiore dell’Economia della Finanza, dell’Agenzia del Territorio, dell’Agenzia delle Entrate, dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, oltre a molte delle banche all’interno del sistema informativo della fiscalità, non parlano tra di loro. Qualche timido progresso c’è stato, ma la sostanza resta sempre la stessa, come sanno bene le imprese cui vengono chiesti dieci volte gli stessi documenti da diversi uffici dello Stato, anche per le incombenze fiscali. Si parla spesso, giustamente, della pressione fiscale eccessiva sulle aziende, non si parla quasi mai del tempo che le stesse devono perdere negli adempimenti relativi. L’associazione R.ete. Imprese Italia di cui fanno parte Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti, in un’audizione alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato lo scorso mese di marzo ha descritto così la situazione: per i soli adempimenti fiscali sono necessarie 238 ore all’anno (pari a 30 giornate lavorative), ossia 79 ore in più (10 giornate) rispetto alla media di 159 ore dei Paesi avanzati – l’Italia è al 118° posto nella classifica dei tempi per pagare le imposte di ‘Doing Business 2019’. Siamo ultimi tra i 28 paesi dell’Unione Europea, il tempo necessario per pagare le imposte in Italia è del 71,2% superiore alle 139 ore necessarie in Francia. Ma quella di R.ete. Imprese Italia potrebbe essere una stima ottimistica: secondo lo studio realizzato dal Censis per Confcooperative a fine 2018, le imprese impiegano 238 ore, oltre 6 settimane di lavoro, per pagare i 14 principali adempimenti fiscali – e stiamo parlando solo del fisco. 

Lo sportello è “unico” solamente a parole: alle piccole imprese vengono richiesti gli stessi documenti da uffici diversi

Ma le nefaste classifiche che la riguardano non sembrano toccare affatto la burocrazia, che impermeabile alle crociate del governo di turno sa molto bene come colpire e affondare i tentativi di ridimensionarla. Francesco Giavazzi racconta, con Giorgio Barbieri, le “istruttive” modalità di siluramento del piano di riforma degli incentivi alle imprese che prendeva il suo nome: «Ricevuto il progetto, il presidente del Consiglio, Mario Monti, chiese di trasformarlo in norme operative. Ma solo la burocrazia conosce le leggi e i regolamenti che sarebbe necessario modificare per cancellare ciascuna agevolazione» spiegano Giavazzi e Barbieri, «Si aprì così un “tavolo di lavoro” cui parteciparono i dirigenti dei ministeri coinvolti (in primis lo Sviluppo economico, ma non solo) e i funzionari della Ragioneria generale dello Stato, cioè coloro che conoscono le norme che stanno a monte di ciascun capitolo di spesa. Il cuore della Ragioneria generale, il cui compito è contenere la spesa, batteva dalla parte giusta, ma a ogni voce da eliminare i dirigenti dei vari ministeri opponevano ragioni imprescindibili che ne impedivano la cancellazione. Dopo qualche settimana di riunioni infruttuose il progetto fu abbandonato».