C’è qualcosa che non quadra: un anno dopo che la sostenibilità è entrata nella Costituzione, all’articolo 9 (“la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”) e alla vigilia dell’entrata in vigore – nel 2024 – della Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd) che allargherà il perimetro della rendicontazione della sostenibilità anche ai fornitori, le imprese stanno facendo un passo indietro. A certificarlo, l’analisi del terzo Congresso Nazionale Future Respect “Imprese sostenibili, pratiche a confronto” (in programma a Roma dal 4 al 6 maggio), che Economy ha potuto consultare in anteprima. Ebbene, i nuovi bilanci pubblicati nel 2022 sono calati dei 23% rispetto all’anno precedente: «Avevamo “rintracciato” 1.331 bilanci di sostenibilità di imprese (da un campo di 25.000 imprese con più di 50 dipendenti)», spiega Francesco Tamburella, coordinatore di ConsumerLab e componente del Forum per lo Sviluppo Sostenibile, «dal 2021 sono cresciuti solo di 125 unità nel 2022,  48 imprese non l’hanno ripresentato, 32 hanno dichiarato di averlo redatto per diffonderlo solo a richiesta, 18 lo hanno reso pluriennale». 

Il rallentamento, in alcuni casi la stagnazione, del mercato nei riguardi della trasformazione sostenibile non è una buona notizia. Quanto all’adeguamento alla Csrd, dal panel delle 200 imprese esaminate dall’Index Future Respect, risulta come solo un quinto delle imprese abbia redatto un codice di condotta,  peraltro sempre in maniera unilaterale, non condivisa e valida per tutti, grandi e piccoli, talvolta adottando i criteri generici suggeriti dell’associazione di categoria. E solo un’impresa su dieci ha predisposto un albo fornitori con le caratteristiche di ammissione, sempre generiche, mentre raramente vengono effettuati controlli ultra cartolari sulle dichiarazioni dei fornitori, altrettanto raramente vengono evidenziati i criteri Esg, mentre sono più frequenti i criteri Criteri Ambientali Minimi (Cam), ovvero i requisiti ambientali definiti per le varie fasi del processo di acquisto, volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale lungo il ciclo di vita, tenuto conto della disponibilità di mercato. «Sul fronte dell’impegno nei confronti dei fornitori si evidenzia un atteggiamento assolutamente carente dei valori di community», sottolinea Tamburella: «mi riferisco alla semplicità e accessibilità dei contratti, ai tempi di pagamento, agli sconti, ai pagamenti ai fornitori in temporanea difficoltà. Ci aspetta la rivoluzione introdotta dall’Europa che complica notevolmente i processi di adattamento e le modalità di comunicazione. Occorre mettere a sistema imprese, terzo settore, associazioni dei consumatori, istituzioni ed esperti da sensibilizzare alle urgenti trasformazioni previste dalla Csrd e preparare gli adeguamenti agli standard di rendicontazione che l’Efrag – European Financial Reporting Advisory Group, ndr – affermerà entro il 2026». 

Filiere a rischio

Solo il 4,6% delle imprese con più di 20 dipendenti, e appena lo 0,03% delle imprese inserite in filiere di fornitura (sono circa un milione), pubblica un bilancio di sostenibilità: «Saranno in difficoltà quando richiesto a tutta la filiera di cui fanno parte», rimarca Tamburella «anche perché solo il 6,6% delle imprese che lo pubblicano specifica i requisiti oggettivi e soggettivi dei fornitori.  Eppure, la nuova direttiva europea sul reporting di sostenibilità coinvolge anche le medie imprese comprendendo tutta la filiera, produttive e commerciale». 

Quanto alle certificazioni attinenti la sostenibilità dell’impresa, le presenta in bilancio poco più di un’azienda su dieci: l’11,2%, contro un 61,1% che neppure si occupa del territorio in cui opera per il sociale o per la cura idrogeologica. E se solo il 21,5% delle imprese nel proprio bilancio di sostenibilità specifica come intende perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile, e quali, appena il 4,7% specifica itinerari concreti di miglioramento nel medio e lungo periodo e e meno di un’impresa su tre (il 31,9%) sintetizza i numeri – gli highlights – che caratterizzano l’essenziale della gestione. 

Di contro, quasi tutte le imprese che redigono il bilancio di sostenibilità (l’88,9%) fanno riferimento al Gri Standard. «La maggior parte delle imprese non ritiene ancora opportuno o solo necessario avviare una evoluzione sostenibile in quanto valuta ancora un costo che non porta ricavi, in particolare nel breve periodo, una complicazione organizzativa non opportunamente e adeguatamente alleggerita dagli adempimenti burocratici o da incentivi», commenta il coordinatore di ConsumerLab. «Non poche imprese che redigono un reporting di sostenibilità lo hanno fatto per emulazione, anche per stare alla moda. Non è sufficientemente diffusa la consapevolezza che molte attività in corso possono essere già ascritte nell’ambito dei criteri Esg, che altre possono essere adattate senza particolare costo. In generale rimangono lontane dal rendersi consapevoli che esistono metodi e tecnologie già disponibili che consentono quell’innovazione corretta che porta automaticamente al rispetto degli obiettivi di sviluppo sostenibile».

La buona notizia? «La pubblicità impostata sul tema della sostenibilità è crollata del 75%: questa è, appunto, una buona notizia visto che è una comunicazione fuorviante, senza presa, perché non ha riscontro in maniera concreta e dimostrata, con impatti perlopiù auto referenziali. È piuttosto diffusa la fallacia che confonde le idee. Insomma informazione che non fa bene e non aiuta». 

Sempre sul fronte cittadini-consumatori non si sblocca lo scetticismo sul reale impegno delle imprese per la trasformazione sostenibile: «circa due terzi vorrebbe che lo fossero, maturando l’idea che le scelte di acquisto nel tempo saranno fortemente influenzate dalla valutazione dei loro impatti sulla società. Sempre la maggioranza dei cittadini non ritiene sincera e trasparente la comunicazione delle imprese e la relazione che intrattengono con il servizio clienti».