Nel mondo di ieri erano i campioni, anzi le campionesse visto che si sta parlando di banche, della globalizzazione, del mondo senza confini dove il denaro poteva circolare liberamente e per conseguenza generare profitti (ed extra-profitti), certificati dalla crescita dei listini di Borsa.
Nel mondo di oggi con guerra inflazione stagnazione crisi energetica blocco delle “supply chains”, insomma tutto quello che nel lontano 2003 aveva previsto un economista americano molto chiacchierato ma dalla vista lunga e con visioni strategiche originali frutto probabilmente del suo talento di campione di scacchi – stiamo parlando di Kenneth Rogoff che all’epoca era capo economista del Fondo monetario internazionale – nel mondo di oggi, dicevamo, sono proprio le banche, le grandi banche internazionali che per un decennio e più hanno spinto oltre ogni limite il gioco finanziario della globalizzazione, a fare (prudentemente?) uno o più passi indietro trincerandosi – proprio loro, le campionesse della finanza senza confini – all’interno del perimetro dei rispettivi Paesi e dei rispettivi continenti.
Insomma “le banche si de-mondializzano” come hanno titolato in queste ultime settimane i grandi giornali finanziari, dal Wall Street Journal al Financial Times, testimoni quasi increduli del repentino cambio di paradigma (e di strategia). Che cosa è accaduto, in sostanza?
Innanzi tutto, le banche hanno cambiato registro per semplicissime e ovvie ragioni economiche. Lo dimostra il caso del colosso francese Bnp Paribas – la prima banca europea come si compiace di definirla il suo gran capo Jean-Laurent Bonaffé – che a dicembre 2021, in piena pandemia ma ancora lontani dai venti di guerra, ha deciso di vendere la sua controllata californiana, la Bank of the West di San Francisco, che per oltre 40 anni ha dato non poche soddisfazioni alla casa madre parigina.
La banca, infatti, aveva, al momento del “deal”, 89 miliardi di dollari di depositi, un patrimonio di 105 miliardi e 500 filiali nel Midwest e nel West. Non è bastato, comunque, per resistere all’offerta del più importante istituto canadese, Bank of Montreal (ha aperto la sua prima filiale negli Stati Uniti nel 1818 e negli anni ‘90 è diventata la prima banca canadese quotata a Wall Street con una capitalizzazione, oggi, di 69 miliardi di dollari) che ha messo sul tavolo 16,3 miliardi di dollari cash. “L’operazione ha senso per Bnp Paribas. Bank of the West, profitti a parte, non era poi così strategica per i francesi. Non sarebbe mai stata una grande banca retail negli Stati Uniti. Con i quattrini della vendita Bnp Paribas può concentrarsi sull’investment banking europeo, dove fa più profitti”, ha commentato, all’indomani dell’operazione, il gestore di fondi Clairinvest Ion-Marc Valahu, che possiede azioni Bnp Paribas.
Bnp Paribas non è stata, comunque, l’unica banca europea a lasciare gli Stati Uniti. Alla fine l’America si è dimostrata un mercato sempre meno attraente (e complicato soprattutto nella relazione con le autorità di controllo sia statali sia federali).
Anche la spagnola Bbva, per dire, ha venduto le sue attività americane a PNC nel 2020, mentre Hsbc, Hong Kong Shanghai Bank, all’inizio di quest’anno ha ceduto la maggior parte delle sue attività Oltreatlantico a Citizens Financial Group, una banca dello stato del Massachussets.
Ma la ritirata non riguarda solo il “difficile” mercato nordamericano. Le banche “si demondializzano”, per usare il titolo del Financial Times, e arretrano anche sui mercati europei. Lo sta facendo (con un certo metodo) l’olandese Ing – quella del Conto Arancio in Italia – che si prepara a lasciare la Francia considerata poco redditizia.
E lo sta facendo anche la seconda banca francese, la Société Générale, che ha deciso di chiudere la sua filiale russa, Rosbank, e di cedere tutto al fondo Interros Capital dell’oligarca Vladimir Potanin, uno dei tanti miliardari arricchitisi con la svendita del patrimonio minerario ed energetico dell’ex Urss (Potanin, re del nickel, è considerato uno dei più grandi inquinatori dell’Artico ma è anche uno degli uomini più ricchi al mondo con un patrimonio personale di 28 miliardi di dollari secondo Forbes).
Société Genérale ha preferito realizzare una perdita di 3,2 miliardi di euro piuttosto che continuare a fare banking in un mercato finanziario considerato senza prospettive e a bassi margini (indipendentemente anche dalla guerra in Ucraina). È quello che faranno anche l’italiana Unicredit e l’austriaca Raiffeisen (che controlla la Raiffeisen Bank, “the best bank in Romania” come si legge nella pubblicità) non appena avranno trovato un compratore.
Il ragionamento che sta alla base di queste scelte è che le banche, anche le più internazionalizzate, non sono più disposte a correre “rischi politici” (nel caso del mercato russo ma anche di quello cinese come si dirà tra poco) e “rischi sistemici” (è il caso del mercato statunitense, già analizzato con la vendita della Bank of the West di Bnp Paribas, ma anche del mercato dell’Est Europa, come la Romania, che non dà più garanzie di tassi e margini più alti).
Tornando ai rischi politici che “de-mondializzano” il business bancario, emblematica la vicenda di un istituto che ha vissuto per decenni sul banking globale come HSBC, un gigante per metà britannico e per metà cinese.
Oggi la seconda banca al mondo fondata nel 1865, dopo la guerra dell’oppio, da un finanziere scozzese (il suo simbolo, un esagono bianco e rosso, è un richiamo alla bandiera della Scozia) si trova in “un moment de bascule historique”, in una fese delicatissima della sua storia imprenditoriale, come ha scritto il quotidiano economico francese Les Echos: deve scegliere se essere una banca occidentale o un istituto di credito molto vicino alle esigenze di politica economica del regime comunista di Pechino.
Glielo chiede il suo principale azionista (con una quota del 9%), la Ping An Insurance Company, un colosso assicurativo arrivato al 16° posto nella graduatoria mondiale di Fortune Global 500 e controllata dal governo regionale di Shenzhen, cioè dal partito unico al potere. Pechino vorrebbe, in pratica, che HSBC si scindesse in due e che la sua parte cino-asiatica (che genera due terzi del suo fatturato, particolare non secondario) venisse quotata in Borsa (a Hong Kong, per esempio) in modo da creare il più grande attore del banking mondiale sotto l’ala del potere politico cinese, quasi il braccio finanziario della sovranità di Pechino.
Dalla mondializzazione alla “cinesizzazione”, insomma. Anche perché di questi tempi “la crescita economica non si accompagna più con la crescita del commercio mondiale. Anzi il commercio si orienta verso la regionalizzazione (Europa, Asia, Occidente, Oriente…) e la supremazia del dollaro non è più un dogma” come ha spiegato all’ultimo Forum di Davos (22-26 maggio) Pascal Blanqué, economista internazionale e presidente di Amundi Institute, colosso francese dell’asset management.
Detto in altre parole, le banche stanno pagando gli errori di una globalizzazione guidata dalla finanza che ha investito solo sui mercati e sull’innovazione tecnologica e non sullo sviluppo dell’economia reale. Solo finanza e zero manifattura, direbbe il nostro Giulio Tremonti (che il Globalista ha citato ampiamente nella rubrica del mese scorso: andate a rileggerla).
La conseguenza è che il “policy mix” rendimento del capitale, livello dei salari e livello degli investimenti in Occidente così com’è non regge e non può che essere rivisto (possibilmente a breve) contraddicendo anche le vecchie politiche monetarie applicate dalle banche centrali (e si veda, a mo’ d’esempio, quel che è accaduto dopo la decisione della Bce di alzare i tassi senza pensare a un qualche paracadute per i Paesi più indebitati come l’Italia).
Sta cambiando tutto, avverte Blanqué di Amundi, il re europeo dell’asset management: per dire, il dollaro dovrà sempre di più confrontarsi con lo yuan cinese che potrebbe diventare il nuovo Deutsche Mark di un nuovo sistema monetario de-globalizzato. Anche il risparmio mondiale, alla fine, si “de-globalizzerà”, nel senso che sceglierà di allocarsi all’interno dei confini dei vari Paesi (l’esempio attuale è il Giappone dove il risparmio interno regge un debito pubblico solo apparentemente insostenibile).
Le banche, forse, lo hanno capito e per questo oggi guidano la corsa alla de-mondializzazione. Infine, c’è la questione di Basilea 3, le regole sullo stato di salute finanziaria degli istituti. Regole pesanti e difficili da gestire. Se non si sta sul territorio, vicino ai clienti, al mercato, ai regolatori. Benvenuti negli anni Settanta.