L’attesa dell’inflazione sembra essersi conclusa per farsi realtà all’inizio di maggio, quando la rilevazione dei prezzi al consumo di aprile negli Stati Uniti ha mostrato un balzo del +4,2%, contro le attese del +3,6%. Il riflesso pavloviano dei mercati è stato il nervosismo, con le Borse che hanno ceduto sulla paura che la Fed possa trovarsi costretta a intervenire prima che l’economia si scaldi troppo. E così, come sottolinea Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) Sgr, la scorsa settimana è stata per i listini la peggiore degli ultimi tre mesi. “La ripresa economica e i massicci stimoli governativi fanno temere che l’inflazione possa sfuggire di mano: sono aumentate le materie prime, i costi dello shipping, e i costi dei servizi – dice Benetti – E ora le attese di inflazione sono ai livelli più alti da 15 anni, il tasso di break-even del titolo americano a cinque anni, buon indicatore delle attese di mercato, ha superato 2,7%, il livello più alto dal 2006”.
I movimenti anomali dei prezzi nella scorsa primavera alterano la misurazione, dicono alla Fed. In altre parole, la sospensione delle attività economiche e commerciali nella primavera 2020 ha spinto in territorio negativo il movimento dei prezzi e poi, con il progressivo ritorno alla normalità, le pressioni si sono allentate e la misurazione sui dodici mesi avrebbe rilevato meccanicamente un risultato fuori scala. Come spiega Benetti, gli economisti della Fed di Dallas hanno provato a isolare l’effetto base dimostrando che, se si considera il periodo eccezionale come singolo episodio, non si registra quella accelerazione meccanica che invece è incorporata nel +4,2%.
Agli argomenti sulla temporaneità di un’inflazione sopra il livello desiderato, altri oppongono il protrarsi nel tempo delle strozzature nell’offerta: il prezzo del rame, per esempio, riflette la scarsità di un metallo importante nella transizione energetica, l’”onshoring” e l’accorciamento delle catene del valore mitigano i rischi di dipendenza in caso di crisi ma aumentano alcuni costi e l’inflazione può rivelarsi uno strumento per abbassare il peso reale del debito senza pagare costosi dazi politici. “Il tiro alla fune tra mercati e Banche centrali alla fine è attorno alla temporaneità o permanenza del fenomeno”, dice Benetti. Che aggiunge: “La Fed continua a vedere il primo aumento dei tassi nel 2023, i mercati non le credono e tirano la corda verso metà 2022. Sarà cruciale quindi il mercato del lavoro negli Stati Uniti, l’adeguamento delle paghe orarie e gli eventuali effetti incorporati nelle aspettative di inflazione nel lungo termine: nel decennio passato abbiamo visto tutti, banchieri centrali compresi, che l’inflazione è rimasta sopita anche con i più bassi livelli di disoccupazione”.
Come sottolinea Benetti, ai dati di inflazione e occupazione si sono aggiunti quelli sulle vendite al dettaglio, negativi dopo l’effervescente +10,7% del mese precedente a causa dell’affievolimento degli effetti degli stimoli governativi. “L’economia americana non balla ancora da sola, sembra avere ancora bisogno di aiuto – commenta Benetti – È quasi certo che nelle prossime settimane e mesi l’inflazione continuerà a essere al centro dell’attenzione, e che potrà crescere ancora a causa dei prezzi delle materie prime, dei colli di bottiglia nell’offerta, e dell’effetto degli stimoli monetari”. “Soprattutto non perdiamo di vista le notizie sugli utili societari – conclude lo strategist – Ben l’85% delle società dell’S&P500 ha battuto le attese, i prezzi scontano il ritorno alla normalità, e il tema dominante del prossimo futuro continuerà a essere la grande rotazione, ovvero il ritorno del favore ai settori più colpiti dalla pandemia”.