Altro che le interviste dello scienziato anglo-canadese Geoffrey Hinton, quello che i media internazionali indicano come “il padre dell’intelligenza artificiale” (in realtà, i padri di questa tecnologia sono diversi, ma il nostro ha vinto il Premo Turing, il Nobel dell’informatica e quindi ci sta) che, a 75 anni, avrebbe lasciato il suo posto di super-ricercatore da Google per poter mettere in guardia l’umanità (lo ha fatto con una intervista sul “New York Times” del 1° maggio scorso) dai pericoli di uno sviluppo incontrollato delle varie piattaforme di “deep learning” che replicano ma con una potenza infinitamente maggiore le connessioni neuronali del cervello umano (che di suo ne governa circa 100 mila miliardi, così tanto per capire di che cosa si tratta).
Altro che le lettere apparentemente preoccupate dei tanti tycoon della Silicon Valley, tra cui l’immancabile Elon Musk (che ha appena acquistato Twitter e che quindi ha un interesse diretto come si dirà più avanti), i quali mettono le mani avanti e consigliano i loro concorrenti, a cominciare da Microsoft e Google, a rallentare lo sviluppo della cosiddetta “intelligenza artificiale generativa” (tecnicamente si chiama così l’ormai notissima ChatGpt creata da OpenAI) e di fare una “pausa di riflessione”. Ma gli appelli non funzioneranno perché, come ammette lo stesso Hinton nella sua citatissima intervista, se gli Stati Uniti si fermano o rallentano, allora sarà la Cina a superare la web-tech americana e allora ci saranno piattaforme di intelligenza artificiale assai più pericolose, assai più invasive e devastanti (per la libertà degli individui).
L’unica cosa che può mettere un freno allo sviluppo incontrollato delle varie ChatGpt di OpenAI e delle varie Bard di Google e far partire un serio confronto tra le major della Silicon Valley e le varie authority incaricate di proteggere i dati, la vera miniera d’oro dell’intelligenza artificiale; l’unica cosa è…il conto economico, la struttura dei costi che già oggi, considerando solo il bilancio di OpenAI (su cui Microsoft ha già investito la bellezza di 10miliardi di dollari) ammonta a 700 mila dollari al giorno. Difficile arrivare a un qualche “break even” con i 10-20 dollari di abbonamento pagati oggi da chi vuole divertirsi a consultare le chatbot delle varie piattaforme che rispondono in pochi secondi anche alle richieste più strampalate.
Come nella prima stagione di Internet, quando la gratuità assoluta del servizio era la parola d’ordine dei vari guru dell’anarco-capitalismo californiano (le conseguenze si vedono oggi con la crisi irreversibile di interi comparti industriali, dai media alla pubblicità), anche il sistema dell’intelligenza artificiale sembra non avere un suo specifico “modello di business” anche se gli utilizzatori solo di ChatGpt di OpenAI sono già 200milioni al mese. Gratuità e micro-abbonamenti non funzioneranno, come non hanno funzionato con Internet. Soprattutto ora che le diverse “fonti” a cui attinge l’intelligenza artificiale hanno cominciato a chiedere di essere remunerate per l’utilizzo, ma forse si potrebbe dire il “saccheggio” come ha scritto recentemente il quotidiano economico francese Les Echos in un editoriale intitolato “Le grand pillage”, dei dati che alimentano gli “algoritmi conversazionali”.
Se ne sa ancora poco perché le notizie appaiono sui media specializzati come Wired o circolano nei vari forum degli addetti ai lavori, ma già un colosso americano dei dati come Reddit, una sorta di portale dei social con 57milioni di “utenti unici” al giorno (il logo Reddit sta per “I read it”, l’ho letto su Reddit) e che si prepara, anch’esso!, alla quotazione in Borsa al Nasdaq, ha fatto sapere che non intende più cedere la massa dei suoi dati a OpenAI: “Non si capisce perché – ha detto il suo fondatore Steve Huffman, uno che ha iniziato a programmare sul computer a 8 anni (oggi ha 40 anni ed è nella lista dei miliardari di Forbes dopo aver venduto Reddit a Condé Nast) – non si capisce perché dobbiamo regalare valore a un’azienda (OpenAI:ndr) che vale 29 miliardi e che quindi non dovrebbe aver problemi a pagare”.
Gli hanno dato ragione il forum “Stack Overflow”, un portale dove gli esperti di programmazione possono chiedere e ottenere risposte alle loro domande tecniche (per dare un’idea, più di un milione e mezzo di “question” al giorno) e “Wired”, la Bibbia mondiale dell’informatica. Parola d’ordine: i dati sono un valore, creano valore (perché senza di essi l’intelligenza artificiale semplicemente non esisterebbe) e quindi vanno remunerati. Quanto? Non si sa, naturalmente. Un indicatore, forse, potrebbe venire dal tribunale civile a cui il solito Elon Musk ha minacciato di ricorrere come primo azionista di Twitter che risulta essere tra i grandi “provider” di OpenAI. Meno aggressiva la News Media Alliance, la Confindustria dei giornali americani e canadesi (più di 2mila testate associate) ha invitato la società di Sam Altman (OpenAI) ad aprire una trattativa.
In Europa, dopo l’intervento del Garante italiano per la protezione dei dati personali che per un mese ha tenuto bloccata la chatbot di ChatGpt in attesa di garanzie sulla privacy degli utilizzatori, s’è mossa anche l’associazione francese degli editori on-line, Le Geste (90 associati tra cui Vivendi di Bolloré, Radio France e i grandi quotidiani e presieduta dal responsabile delle news del Figaro, Bertrand Gié) che pensa di trovare un “marquer techniqe”, una sorta di bollino identificativo dei dati in modo da poterli tracciare quando vengono utilizzati da soggetti terzi non autorizzati come le piattaforme d’intelligenza artificiale.
Insomma, nel Vecchio Continente si segue la strada della regolamentazione (il cosiddetto “AI Act”, severissimo sul terreno dei diritti delle persone, messo a punto dalla Commissione europea è arrivato in Parlamento a metà maggio, relatore l’italiano Brando Benifei del Pd) dimenticandosi però – lo scrive l’editorialista di Les Echos Lucie Robequain – che seguendo questa strada l’Europa ha perso tutte le battaglie dell’informatica, dal Gps al Cloud ai motori di ricerca. Perché anche questa dell’intelligenza artificiale è una partita che si gioca tra potenze globali, Stati Uniti e Cina, e colossi industriali capaci, loro sì, di proteggere i propri dati. Come fa Bloomberg, numero uno dell’informazione finanziaria, che sta investendo per costruirsi la sua piattaforma proprietaria di intelligenza artificiale. La guerra per l’intelligenza artificiale sarà reale. E durissima.