Altro che immateriale, la produzione dell'on-line pesa moltissimo sulla realtà
Elisabetta Risso* (* Socia ANDAF, esperta in comunicazione e co-fondatrice di Dunamai)

I cambiamenti che stiamo vivendo a livello globale, molteplici, rapidi e spesso imprevedibili rendono estremamente difficile progettare piani a medio-lungo termine per le imprese e sono causa di discontinuità e incertezza. Se a un tale quadro si aggiungono i riferimenti politici e istituzionali che non sembrano comprendere la delicatezza e le conseguenze di alcune decisioni, ecco che la figura di direttore amministrativo e finanziario si trova a navigare in acque sconosciute quando le sfide globali richiederebbero invece una progettualità di lungo periodo. Diventa quindi fondamentale che la figura del CFO, alla luce della trasformazione della professione che lo vede uno dei protagonisti del management proprio per la responsabilità di selezionare ed analizzare l’enorme mole di dati prodotti internamente ed esternamente all’azienda, sia un riferimento attivo e propositivo nelle decisioni strategiche per il futuro dell’impresa.

Durante il recente congresso nazionale di ANDAF che si è svolto a Milano, gli argomenti trattati in un’ottica di comprensione e governo del cambiamento sono stati numerosi: dalla rivoluzione digitale che ha cambiato il modo di comunicare tra le persone, le istituzioni e le imprese, all’intelligenza artificiale che apparentemente minaccia il mondo del lavoro così come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo; dall’evoluzione degli strumenti finanziari che devono sopravvivere ed evolvere verso forme più efficienti e facilmente fruibili, alle strutture organizzative che vanno rimodellate in modalità più snelle e reattive. Nella seconda giornata di lavori, l’attenzione si è spostata da un’analisi dei fatti che stanno intervenendo così prepotentemente nelle nostre vite all’analisi dell’impatto che questi hanno sulle persone che lavorano in azienda e alle conseguenze di queste nuove “relazioni strumentali”.

Il caso di google è l’esempio più calzante di come aziende del web abbiano acquisito tanta rilevanza economica

Un quadro d’insieme che ha fornito alla vasta platea dei convenuti una serie di informazioni e considerazioni scaturite dagli interventi dei relatori e dai talk show con alcuni strumenti utili alla comprensione di questo fenomeno epocale che stiamo tutti vivendo, ad ogni livello e in ogni momento delle nostre vite professionali e non, proprio in questi anni di transizione.

È certamente vero che il punto nodale è la rapidità di ingresso e diffusione dei cambiamenti della realtà lavorativa, rapidità che non era neppure immaginabile fino a pochi decenni fa: come adattare la persona a tutto questo? La prima considerazione che sorge spontanea riguarda l’immaterialità della gran parte di questi contenuti che pare essere direttamente proporzionale alla loro importanza e pervasività. Pensiamo a come le aziende di maggior successo, e di più rapida crescita, abbiano costruito la loro fortuna su idee e prodotti intangibili. La case history di Google, magistralmente raccontata attraverso una pièce teatrale durante il congresso, che nel 2017 è arrivata a sfiorare un fatturato di 110 miliardi di dollari, è un esempio calzante, insieme a tante altre realtà del web, di come le aziende nate su prodotti “immateriali” abbiano acquisito una così grande rilevanza economica in un mondo in cui fino a vent’anni fa avevano un ruolo estremamente marginale o addirittura non erano ancora state create.

È quindi ancora possibile definire immateriali le “produzioni” di simili fenomeni di mercato quando entrano nelle nostre case, nelle aziende in cui lavoriamo e nel nostro tempo in maniera così rapida e massiccia? Forse è giunto il momento di fare una riflessione più profonda ed articolata per essere veramente consapevoli su dove siamo e su cosa sta accadendo nel nostro ambiente. Oggi abbiamo a disposizione una mole di informazioni enorme, quasi infinita; attraverso gli smartphone o i tablet possiamo prenotare viaggi, acquistare beni e servizi, guardare film o serie tv, restare in contatto virtuale con gli amici e in generale avere la sensazione di interagire in remoto in eventi anche lontani migliaia di chilometri. In pratica, com’è ormai noto, questa partecipazione virtuale è estremamente superficiale e non consente una vera e propria interazione sensoriale con l’ambiente circostante ma passa attraverso una sorta di filtro che diluisce quello che potremmo definire il “vissuto” del fatto o della situazione.

In breve, anche noi, presi come singole persone, oggi siamo pervasi di azioni che sono immateriali ma hanno effetti tangibili e invasivi: oltre al tempo consumato on-line (occorre ricordare che il tempo è una variabile indipendente – ndr) un esempio può essere il cyber bullismo in cui con pochi click si possono sconvolgere delle esistenze, oppure possiamo citare la perdita della memoria di lavoro rispetto alle generazioni precedenti i cui i effetti si notano già da tempo nei cosiddetti nativi digitali.

Grace Murray Hopper diceva che «la frase più pericolosa in assoluto è: “abbiamo sempre fatto così”»

Ma quanto ci rendiamo conto di questa situazione? Siamo tutti iper-connessi ma come affrontiamo i cambiamenti i cui vortici ci hanno già ghermiti e ci trascinano verso un nuovo che avanza così rapidamente da superare ciò che consideravamo innovativo soltanto ieri? È fondamentale sapere dove siamo e soprattutto come ci sentiamo di fronte a questo: in sintesi è necessario, per ognuno di noi, fermarsi a riflettere e guardare dentro ed intorno a sé per essere consapevoli di ciò che stiamo facendo. Perché soltanto rallentando il ritmo e ascoltando noi stessi e coloro che ci circondano è possibile rendersi disponibili al cambiamento e diventarne protagonisti attivi anziché fruitori passivi.

Anche per la persona più tecno-entusiasta ogni cambiamento porta con sé il timore dell’ignoto, ogni novità che modifica abitudini consolidate produce un senso, seppur minimo, di disagio ed inadeguatezza che spaventa. Tutto questo è parte di noi da sempre e sempre ne è stata la chiave per imparare a governare le innovazioni e non ad esserne governati. Si tratta dunque di avere coscienza del vivere e lavorare in una complessa fase di transizione in cui riscoprire l’importanza della riflessione diviene fondamentale non per combattere le innovazioni, ma per comprenderne appieno le potenzialità ed utilizzarle come strumento per portare ad evolvere le imprese. Imprese che vanno intese come organizzazioni di persone volte non soltanto al profitto finanziario ma anche al compimento di un ruolo sociale ed etico che attui già al proprio interno modelli di sostenibilità irrinunciabili per attuare un vero progresso.

Appare quindi evidente che, alla luce di quanto discusso in questi due giorni, ognuno di noi, come persone e come manager, abbia la responsabilità di portare in azienda e nelle proprie vite qualcosa di tangibile per andare consapevolmente verso questa filosofia del cambiamento. La citazione di Grace Murray Hopper “la frase più pericolosa in assoluto è: abbiamo sempre fatto così”, illustra in maniera efficace come la paura del nuovo possa portare alla resistenza all’innovazione, ad una chiusura mentale che diventa anti-storica e ostacola, caricandola di significato negativo, la spinta verso un futuro migliore più sostenibile per la nostra società. Soltanto mantenendo attivi riflessione, ascolto e confronto con gli altri, potremo attraversare questa fase per avere un atteggiamento propositivo e aperto tenendo al centro le persone che sono, e devono essere, protagoniste del cambiamento nelle aziende e nelle organizzazioni per dare senso compiuto all’innovazione tecnologica e digitale.