Altro che futuro: la diffusione dell’auto elettrica è un ritorno… al passato. La prima auto infatti è stata elettrica. Fu costruita nel 1884 dall’inventore inglese Thomas Parker, l’uomo che elettrificò la metropolitana di Londra e i tram di Liverpool. La prima auto a benzina arrivò solo due anni dopo: era il triciclo Benz Patent-Motorwagen realizzato dall’ingegnere tedesco Karl Benz, che quarant’anni dopo avrebbe fondato insieme a Gottlieb Daimler la Daimler-Benz. Per alcuni anni le due motorizzazioni si contesero il mercato con quelle a vapore. Ma infine i limiti di velocità (30 Km/h) e autonomia (50 Km), oltre al peso delle batterie, penalizzarono l’elettrico, mentre marmitta e radiatore misero le ali ai motori a benzina. E anche all’estrazione di petrolio: nessuno, ai tempi, si preoccupava delle conseguenze delle emissioni.
Oggi che il pianeta ci sta presentando il conto, industria, mercato e governi puntano sempre più verso l’elettrico. Ma è bene chiarire subito un punto: di per sé, un’auto elettrica non è ecologica. La sua batteria non è altro che una scatola vuota. Se è caricata al 100% con energia prodotta da centrali a carbone, non lo è per niente. In questo caso, la città in cui si muove avrà l’aria un po’ più pulita, ma 100, 500, mille chilometri più in là il cielo sarà nero per le emissioni della centrale a carbone. Viceversa, se è caricata al 100% con energia prodotta da fonti rinnovabili, allora è davvero ecologica.
Quanto un’auto elettrica rispetta l’ambiente, al netto del riutilizzo e riciclo della batteria, dipende insomma dal mix delle fonti con cui si produce l’elettricità del Paese in cui si trova quando si collega alla rete per ricaricarla. In Italia siamo messi discretamente bene: secondo un’elaborazione dell’ufficio studi di Confartigianato su dati Aie, con il 41,5% di rinnovabili siamo vicini alla Germania che però ha molto più carbone di noi, mentre la Francia dipende in larga parte dal nucleare (un bene o un male?…); ma per quasi il 50% la nostra energia elettrica viene ancora dal gas naturale. Ma il rapporto “Decarbonizzare i trasporti” della Struttura transizione ecologica della mobilità e delle infrastrutture (Stemi) dell’ormai defunto ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili che era stato tenuto a battesimo da Enrico Giovannini, mette un punto importante. Già con il mix energetico attuale, infatti, la sostituzione dei veicoli a combustione interna, che oggi rappresentano il 99% del trasporto stradale italiano, con veicoli elettrici comporterebbe per il nostro Paese una riduzione del 50% delle emissioni sul ciclo di vita del trasporto leggero su strada. Secondo la Stemi i motori elettrici sono la soluzione per le automobili e gli autobus, e in buona misura anche per i tir; sono utilizzabili anche per aeroplani e navi, ma solo per brevi tragitti, mentre per distanze superiori si deve puntare su biocombustibili sostenibili e idrocarburi sintetici. In Italia, aggiunge il rapporto, il settore dei trasporti era responsabile nel 2019 (ultimo anno pre-Covid) del 25,2% delle emissioni totali di gas ad effetto serra e del 30,7% delle emissioni totali di CO2; il 92,6% di tali emissioni sono attribuibili al trasporto stradale.
“Elettrifigata”, dunque? Mica tanto. Nel mese di agosto, in Germania il 31,7% delle auto vendute erano elettriche, nel Regno Unito il 20,1%, in Francia il 17,3%, in Italia il 5% – il 3,9% da gennaio ad agosto. Gli italiani insomma non sembrano così entusiasti del passaggio all’elettrico. Il problema è che non si sta facendo granché per convincerli: prima di tutto le auto elettriche (in tutta Europa) continuano a essere più costose di quelle a benzina del 27%, con un prezzo medio di 55.281 euro, mentre in Cina costano il 33% in meno, mediamente 31829 euro; ma il problema è più generale. Mancano le colonnine, e quando ci sono, spesso sono occupate; si deve scaricare un’app per ogni operatore; con le colonnine veloci la ricarica dura mezz’ora invece di 5 ore, ma costa circa un euro al KWh e allora i costi si avvicinano a quelli di una Ferrari; e così via.
Lo stesso Governo non pare puntare con decisione sull’elettrico, anche a causa di una comprensibile preoccupazione per le sorti dell’industria componentistica automotive italiana, legata ai motori a combustione: di qui la scelta di ostacolare con successo la scelta europea di bloccare le vendite di auto a motore endotermico a partire dal 2035, mettendosi a capo di una coalizione che si batte perché anche i biocombustibili – che secondo il rapporto Stemi presentano dubbi vantaggi dal punto di vista delle emissioni – siano inclusi nella transizione in nome della neutralità tecnologica. Una scelta che fa discutere, così come quella di non ridurre le emissioni richieste alle auto con il passaggio dal regolamento Euro 6 a Euro 7, di cui l’Italia si è fatta paladina con la Francia.
«I dati confermano che nell’elettrico l’Italia resta il fanalino di coda in Europa» dice Michele Crisci, presidente di Unrae, Unione nazionale rappresentanti autoveicoli esteri, l’associazione che rappresenta le case estere operanti sul mercato italiano. «Il Paese sta scontando un ritardo: in Francia e Germania gli incentivi per acquistare auto di nuova generazione sono iniziati nei primi anni Duemila, 20 anni fa, qui invece sono partiti solo dal 2018. Oggi stanno continuando, ma non funzionano per una serie di scelte che abbiamo segnalato a questo governo come al precedente». Ecco dunque perché secondo Unrae gli incentivi non hanno raggiunto il bersaglio: «Si sono imposti troppi lacci e lacciuoli per averne diritto» sostiene Crisci, «come i tetti ai prezzi, il fatto che bisognasse essere privati e non partite iva e nemmeno aziende, quando si sa che molte aziende hanno più armi per attraversare più velocemente questa transizione, anche perché tante hanno le ricariche nei piazzali».
Ma i problemi sono anche di natura fiscale. «Non è possibile detrarre al 100% l’Iva come in Germania e in altri Paesi, ma solo al 40%» precisa il presidente di Unrae, «abbiamo proposto a vari governi di arrivare al 100% partendo dalle auto senza emissione, per dare un segnale chiaro». Sul motivo per il quale questa proposta non è stata accettata le case estere hanno le idee chiare. «C’è la malcelata volontà di proteggere l’industria italiana, ma la nostra sensazione è che questo sia controproducente» scandisce Crisci, «alzare muri di difesa significa mettere in crisi l’industria italiana; non teniamo conto di quella automobilistica, ma solo della componentistica, una delle più importanti al mondo: fattura il 60% delle merci proprio verso quei produttori europei che stanno spostandosi velocemente verso l’elettrico. Cosa farà l’azienda che produce marmitte nel 2035 quando non sarà più possibile produrre auto termiche? La riconversione va iniziata immediatamente, perché richiede tempo». Quanto alle polemiche circa la data scelta in sede europea per lo stop alla vendita: «La mia opinione è semplice, il 2035 è lontano, c’è tutto il tempo per fare qualunque cosa» aggiunge il presidente dell’Unrae. «Dodici anni nel mondo dell’automotive sono quasi tre cicli industriali completi, non si può credere di non essere capaci di riconvertire l’industria. I governi devono dare l’indirizzo e facilitare, poi è chiaro che tutte le transizioni devono essere un successo non solo ambientale ma anche economico e sociale, si devono prendere tutte le tutele per la riconversione del terzo mercato europeo».
Un esempio di come questa transizione sia possibile viene da un progetto, i cui dettagli sono ancora coperti da segreto, che sta realizzando il Made Competence Center Industria 4.0 di Milano, come spiega il suo presidente Marco Taisch: «Lavoriamo sulla progettazione delle fabbriche» spiega Taisch, «e stiamo facendo un progetto con un grande produttore di componentistica italiana sulle tecnologie di ridisegno delle fabbriche pensate per produrre un componente delle auto elettriche, perché quel componente richiederà layout diversi, fabbriche diverse, tecnologie di produzione diverse. Made ha il know how per supportare questa azienda. È certamente un esempio di come la riconversione sia possibile, però va detto che questa impresa ha le dimensioni per avere al suo interno le risorse economiche e di know how, anche se ha preso anche un finanziamento pubblico, che però non copre il 100% dei costi».
Ma Taisch, che è anche professore di Digital Manufacturing, Sustainable Manufacturing and Operations Management al Politecnico di Milano, oltre che esperto del mercato automotive, è scettico sulla scelta esclusiva a favore dell’elettrico. «Se dobbiamo salvaguardare la nostra industria che produce componenti per l’automotive, preferirei provare a investire per studiare i biocarburanti, che richiedono tecnologie molto più vicine a quelle a combustione interna che all’elettrico» dice Taisch. «Anche la velocità con cui l’Ue aveva imposto la transizione è troppo rapida per consentire all’Italia e a tutta l’Europa di riconvertirsi senza creare uno shock economico. Che l’ambiente sia importante è fuori discussione, ma non dimentichiamo che la sostenibilità non deve essere solo ambientale, ma anche economica: si deve trovare il giusto compromesso».
Il professore del Politecnico mette in guardia anche dalle conseguenze geopolitiche, e quindi economiche, di una scelta esclusiva appannaggio di questa tecnologia. «L’elettrico vuol dire usare un certo tipo di materie prime che oggi non abbiamo in Europa» incalza Taisch. «La riapertura delle miniere che avevamo chiuso non è sufficiente a garantirci dal rischio di dipendenza dalla Cina, passando quindi dalla dipendenza energetica dalla Russia a quella da un altro Paese che non si sta dimostrando particolarmente ecumenico verso le necessità di altri parti del mondo. Non dimentichiamoci che se la Cina rallenta la sua economia diventerà ancora più aggressiva, quindi dobbiamo metterci al riparo, anche tenendo aperte più porte».
Una di queste porte potrebbe essere quella dell’idrogeno. Ma nel 2003 la European hydrogen and fuel cell technology platform, sostenuta dall’Ue, prevedeva fino a 5 milioni di auto a idrogeno sulle strade entro il 2020, invece nel 2021 se ne sono vendute 15500 in tutto il mondo. Il problema numero uno è quello dell’efficienza energetica complessiva: quella di un’auto elettrica va dal 70 al 90%, quella di un’auto a idrogeno dal 25 al 35%: il resto si perde con l’elettrolisi per produrlo, la compressione e liquefazione, il trasporto, la trasformazione in energia elettrica tramite celle a combustione. Ma nonostante questo clamoroso svantaggio tecnologico competitivo legato alle leggi della termodinamica, case automobilistiche e Paesi come il Giappone, la Corea del Sud e la Cina stanno puntando sull’idrogeno (con l’Italia che a oggi ha solo due distributori sul territorio, uno a Bolzano e l’altro a Mestre). «Siamo convinti che la tecnologia delle celle a combustibile e quella dei BEV si completino a vicenda» ha affermato l’amministratore delegato di BMW, Oliver Zipse. «L’idrogeno è l’anello mancante per una mobilità senza CO2 per le lunghe distanze e nelle regioni senza sufficienti reti di ricarica». Forse questa volta Elon Musk, che ha perfidamente chiamato quelle a idrogeno auto “a celle sceme”, si è sbagliato…
Ma poi c’è il nodo del trasporto merci
Un fantasma aleggia sui dibattiti a proposito della mobilità sostenibile: quello del trasporto merci in città, un tema di cui si parla pochissimo ma che in realtà incide in modo molto rilevante sulle emissioni. Il riscaldamento globale è dovuto in larga parte alla CO2, prodotta all’80% dalle città che pure rappresentano soltanto l’1,6% della superficie del pianeta. Nel 2019, il trasporto merci provocava oltre il 40% di tutte le emissioni di CO2 legate ai trasporti; la previsione è per un raddoppio della domanda nel prossimo trentennio. Uno studio del World Economic Forum stima un aumento del 30% delle emissioni di gas serra nel 2030 rispetto al 2019, dovuto esclusivamente all’aumento delle attività di consegna merci urbane, il cosiddetto ultimo miglio. Il 73% degli europei vive attualmente in città, e si prevede che questa percentuale salirà all’82% nel 2050.
Il trasporto merci urbano è fatto di tanti viaggi e piccoli carichi. Il che significa che la quantità di merce trasportata è relativamente bassa, circa il 3% dell’attività merci totale, le emissioni invece alte, circa il 20% di tutte quelle dovute al trasporto merci. I veicoli commerciali leggeri costituiscono circa il 70% di tutti i veicoli per il trasporto merci su strada. Il problema è che sono spesso troppo inquinanti: non per niente due anni fa 24 tra le maggiori città dell’Ue – tra le quali Parigi, Lisbona, Amsterdam, Torino e Bologna – hanno definito il proliferare dei furgoni che attraversano ogni giorno le città il tallone d’Achille del trasporto su strada in Europa. E i sindaci hanno chiesto alla Commissione europea di riconvertire all’elettrico le flotte dei piccoli veicoli commerciali al massimo entro il 2035, e di garantire che almeno il 50% dei veicoli venduti nel 2030 sia elettrico.
I progetti europei non mancano, ma non sono fin qui riusciti a incidere davvero, né soprattutto a destare l’attenzione dei cittadini sull’importanza della questione. Lo scorso aprile è stato lanciato il progetto Greta (Greening Regional fReight Transport in fuAs), coordinato dell’Istituto sui Trasporti e la Logistica (Itl), cui partecipano le italiane Reggio Emilia e Verona, Maribor, Poznan, Budapest e Berlino in qualità di osservatore. Si tratta di un progetto che si svilupperà nel corso dei prossimi 36 mesi, con l’obiettivo di promuovere la decarbonizzazione delle consegne nell’ultimo miglio all’interno delle Aree Urbane Funzionali (FUAs) dell’Europa Centrale, riducendo così le emissioni di gas serra e migliorando la qualità della vita. Il progetto si concentrerà sull’implementazione di soluzioni sostenibili condivise tra le diverse città coinvolte nel progetto, rendendole facilmente replicabili. Le soluzioni strategiche e tecnologiche proposte prevedono l’utilizzo di veicoli elettrici a zero emissioni e cargo bike, l’organizzazione degli spazi pubblici tramite il curb management e l’implementazione di partnership pubblico-privato finalizzate a promuovere la qualità delle consegne e il benessere delle città coinvolte.
Come suggerito dalla Strategia per una mobilità sostenibile e intelligente della Commissione Europea, uno dei punti chiave per rendere sostenibile ed efficiente il trasporto urbano delle merci è la promozione di piani di logistica urbana sostenibile dedicati. Proprio quelli che non sembrano all’altezza. Perché in occasione delle recenti morti di ciclisti a Milano sotto ai camion in pieno centro, nessuno si è chiesto se il problema non fosse, come si è detto, che non erano dotati di sensori di angolo cieco, ma semplicemente che al posto di quei camion avrebbero dovuto esserci veicoli leggeri, adatti alle zone urbane?