Addio a Cesare RomitiUn italiano riuscito bene

Avercene. Avercene, di Cesare Romiti. Assertivo, divisivo, direttivo: ma efficace. Ma concreto. Ma rigoroso. Ma responsabile. Un profilo di leader tutto opposto a quello che affigge oggi il nostro Paese.
Il grande manager italiano – senza forse il più grande del Novecento – se n’è andato ieri ad età avanzatissima, come la sua fibra gli ha consentito. Capo della Fiat per 24 anni ha attraversato da protagonista e influenzato il periodo della più grande e dolorosa trasformazione della società italiana, dagli Anni di piombo a Tangentopoli al Berlusconismo. Gli anni di declino nazionale e di globalizzazione incipiente, gli anni della prima informatizzazione, tutti temi sui quali la Fiat era considerata nel mondo un punto di riferimento interessante, una centrale autonoma di pensiero industriale, una scuola manageriale. Certamente grazie al carisma di quel personaggio globale che fu Gianni Agnelli, ma anche alla guida di Cesare Romiti, il cui successo straordinario non si spiega senza la funzionalità perenne al ruolo dell’Avvocato.
Il suo rimanere in piedi, unico astante, per tutta la durata della funzione funebre di Agnelli, quel voler dimostrare l’eccezionalità del rapporto – scandita dalla massima relazione fiduciaria e dal deliberato eterno ricorso all’uso del “lei” – era proprio un omaggio del grande manager al grande capitalista.
Poco sonno, molta energia, Romiti è stato fino alla fine la prova vivente di quella “via muscolare per il successo” che ricorre nelle biografie di molti personaggi del potere. Uno stress che però, evidentemente, davvero “logora chi non l’ha”.
Facendo la tara su quel vizio dell’anima che affligge tutti quelli che invecchiano – preferire sempre il passato e i suoi simboli a un presente che appare sempre peggiorativo forse solo perché viene guardato dagli occhi di un anziano – viene da dire che di personaggi così oggi l’Italia è priva.
“La vita mi ha costretto a essere duro – disse al Corriere della Sera in un’intervista di quattro anni fa, che è bello ricordare oggi – La Fiat stava morendo. Sparavano a un caposquadra ogni settimana. Bisognava mettere i violenti fuori dalla fabbrica, tagliare il personale, chiamare i torinesi perbene a salvare l’azienda. E i torinesi risposero. Se non l’avessero fatto, oggi la Fiat non ci sarebbe, come non ci sono l’Olivetti e la Montedison. In circostanze eccezionali, gli italiani rispondono”: Romiti gli italiani li ha conosciuti, fa bene rileggere questio giudizio in un altro momento difficilissimo come questo che viviamo.
La cifra forse dominante della sua azione pubblica è stato il decisionismo. “Ci sono momenti – mi disse – in cui conta di più prendere subito una decisione che soffermarsi a scegliere quale possa essere la decisione migliore”. Il decisionismo nella responsabilità, che lo portò mille volte a incrociare polemiche con personaggi politici e anche istituzionali. Compresa la fase grigia di Tangentopoli, quando l’Italia apprese – con enfatizzato stupore – che anche il gruppo Fiat pagava tangenti: malvolentieri, però, più per l’incapacità o la non-volontà di opporsi, come la propria forza avrebbe permesso, che per la volontà di aggirare il mercato. Come ad esempio Romiti predicava quando metteva in concorrenza le controllate Fiat – un esempio: il Comau – con i fornitori esterni che a volte (memorabile una fornitura di robot di montaggo dalla Mandelli di Piacenza alla Ferrari) vincevano.
La concorrenza che ispirò la logica della “qualità totale”, ad emulare i giapponesi, permettendo effettivamente di chiudere quella forbice di perfezione costruttiva che fino agli Anni Ottanta aveva segnato le auto Fiat rispetto a molti concorrenti. Quella concorrenza che indusse la Fiat, grazie anche all’apporto di Paolo cantarella, di costruire a Melfi quella che è stata la fabbrica d’auto più efficiente d’Europa. Certo, con forti aiuti pubblici: reinvestiti in Italia, però. Mentre per Romiti la Fiat di John Elkann non era “più un’azienda italiana”.
Un altro mantra impopolare oggi che Romiti ha sempre tenuto a ripetere – in coerenza con la “scuola” di Enrico Cuccia, che lo aveva scelto in Alitalia e sempre sostenuto in Fiat – era quello dell’onestà personale: “«Abbiamo pescato, in Fiat, un paio di persone che pretendevano soldi per presentare qualcuno all’avvocato – disse Romiti in un’intervista a Repubblica dell’85 – Uno dei due l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano». E poi aggiunse: «Dalla Fiat lo licenziai in tronco, anche se poi formalmente risultò che si era dimesso volontariamente». Inutile dire chi fosse il secondo: Luca Cordero di Montezemolo.
Ma del conflitto d’interessi implicito nell’attitudine del ceo-capitalism all’americana, in cui i top-manager vengono pagati cifre iperboliche legate all’andamento borsistico dei titoli dell’azienda, Romiti era feroce oppositore: e si è sempre opposto alle stock-options.
E ancora: l’informazione, una sua passione, il settore che chiese ad Agnelli di rilevare dalla Fiat, con la quota in Rizzoli-Corriere della Sera, al momento della liquidazione. “E da editore è sempre stato scrupolosamente rispettoso dell’autonomia della direzione”, ha detto di lui Ferruccio De Bortoli, che con lui diresse a lungo il grande quotidiano. E infine – ma giusto per chiuderla qui, perché si potrebbe proseguire – la Cina: Scelse di presiedere la Fondazione Itaia-Cina in cui puntare sul grande paese asiatico sembrava un gusto esotico, da safari economico. Altro che…